«I militari israeliani mi hanno dato l’impressione di voler sparare per uccidere… avevano una lista con nomi e fotografie delle persone a bordo», raccontò cinque anni fa il giornalista greco Aris Chatzistefanou, di Radio Skai, che si trovava a bordo della nave Mavi Marmara abbordata da un commando israeliano a circa 130 km dalla costa, quindi in acque internazionali, nella notte tra il 30 e il 31 maggio del 2010. I militari israeliani fecero fuoco e uccisero nove passeggeri turchi, un altro, ferito gravemente, è deceduto dopo una lunga agonia. La Mavi Marmara navigava assieme ad altre imbarcazioni verso Gaza, nel quadro di una iniziativa della Freedom Flotilla volta a rompere il blocco navale imposto da Israele intorno al quel lembo di territorio palestinese. Sempre in quei giorni uno spagnolo, Manuel Tapial, una delle centinaia di attivisti a bordo delle navi della Freedom Flotilla, dichiarò che gli israeliani «hanno cominciato a sparare, prima dall’elicottero, poco dopo che i primi soldati si erano calati a bordo». Ci fu resistenza, confermò Tapial ai microfoni della CadenaSer, ma, aggiunse, «era una resistenza difensiva, con bastoni, cui si poteva rispondere in maniera non così violenta».

 

Sono soltanto due delle innumerevoli testimonianze raccolte nei giorni successivi all’assalto della Mavi Marmara e all’arresto di centinaia di attivisti a bordo delle imbarcazioni della Freedom Flotilla, tra di essi anche quattro italiani: Angela Lano, Manolo Luppicchini, Manuel Zani e Joe Fallisi. L’abbordaggio fece precipitare al punto più basso le relazioni tra Turchia e Israele. Tel Aviv ha sempre negato l’uso intenzionale della forza e ripete che i suoi soldati «furono aggrediti» e «costretti a sparare per difendersi». Una tesi contraddetta dalle testimonianze dei passeggeri ma che convinse subito gli Stati Uniti di Barak Obama e anche l’Italia che nelle settimane e mesi successivi nelle sedi internazionali si oppose alla condanna di Israele. Un quotidiano italiano, Il Giornale, applaudì alla strage con un titolo indimenticabile: “Israele ha fatto bene a sparare. Dieci morti tra gli amici dei terroristi”. Ma quella tesi convinse anche il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi), Fatou Bensouda, che, nell’autunno del 2010, decise di non aprire un procedimento contro Israele perché non ritenne l’accaduto «sufficientemente grave». A conclusione dell’indagine preliminare, Bensouda scrisse che c’erano «basi ragionevoli» per parlare di «crimini di guerra», ma non tanto gravi da giustificare un intervento della Cpi. Non è questa l’opinione dei giudici della stessa corte che due giorni fa, accogliendo un ricorso presentato delle Isole Comore (la Mavi Marmara era turca ma durante la missione per Gaza batteva bandiera delle Comore), ha invitato Bensouda a riconsiderare la sua decisione di non indagare l’assalto israeliano al convoglio della Freedom Flotilla.

 

I giudici hanno stabilito che Bensouda ha fatto «errori materiali nella sua determinazione della gravità del caso» e ora deve rivedere al più presto la sua decisione e comunicarla all’organo del Tribunale che decide sull’ammissibilità dei casi, alle famiglie delle 10 vittime turche e alle Isole Comore. La vicenda che sembrava chiusa ora è di nuovo in primo piano, mentre i rapporti tra Turchia e Israele sembrano ritornati ad una “quasi normalità”. Per la Freedom Flotilla è una rivincita, che giunge poche settimane dopo l’ennesimo abbordaggio di una delle sue imbarcazioni dirette a Gaza, la “Marianne”, avvenuto sempre in acque internazionali, da parte della Marina israeliana. Rabbiosa la reazione del governo israeliano. Il premier Netanyahu ha ribadito la tesi che i soldati spararono per difendersi e che l’azione della Marina israeliana avvenne nel rispetto delle leggi internazionali. Secondo Netanyahu la Cpi dovrebbe occuparsi di ciò che accade in Siria e non della Mavi Marmara.