È un disagio rileggere gli ultimi cinque anni attraverso le vignette di Mauro Biani. Una vertigine cupa che permea tutte le 192 pagine di La banalità del ma, raccolta edita da People Edizioni e opportunamente annotata da Francesco Foti: il frutto amaro della consapevolezza che la satira contemporanea non abbia più ragioni per strappare sorrisi a nessuno.
Del resto, di cosa ridere? L’Europa, parafrasando un vecchio adagio, è poco più che un’espressione geografica, un’accozzaglia di sovranismi uniti solo dalla comune idolatria per il Capitale. L’America del Sud sta lentamente perdendo ogni pur tiepido anelito progressista per guardare ai regimi dei vari Pinochet, Videla e Rios Montt, i cui muscolosi eredi scalpitano per tornare al potere. Della Russia, meglio non parlare, visto quello che succede a chi sfiora Putin. E anche gli Usa, che fino a pochi anni fa sembravano il motore del cambiamento, sembrano tornati indietro di quarant’anni.

Anche in Italia, il colore dominante è il grigio tendente al nero. Così, per chi usa la matita per far ridere, meglio ridurre la politica a pretesto. Zerocalcare ha conquistato i millennials ridendo dei loro psicodrammi nerd. Makkox usa Salvini, Di Maio & C. come maschere intercambiabili dell’arcitalianità. Federico Palmaroli alias Osho la butta in caciara. Il cinquantunenne Biani, no. Per lui il diritto di critica resta al centro del villaggio, in un’ironia sottile come l’aria d’alta quota ma greve come il puzzo della cronaca.
La lezione è quella del grande Luigi Pintor: lasciare l’umor nero su una panchina e corteggiare la comicità. Ma senza mai perdere di vista il nocciolo delle cose. Ogni vignetta, un editoriale. Mazzate bipartisan, che in Italia destra e sinistra sono ormai virtualmente indistinguibili. Un segno volutamente freddo, essenziale, senza strizzate d’occhio né birignao grafici. E al centro, la notizia, il dito puntato verso un lettore cui basta uno sguardo per ritrovarsi sulla stessa croce dei morti sul lavoro, degli affogati, degli esodati, degli abusati, degli ammazzati, degli ultimi.
A divertire, Biani nemmeno ci prova: si limita a mettere il lettore di fronte alle sue responsabilità, che sono quelle di chi guarda nell’abisso senza riuscire a far altro che andare sempre più giù. E sprofondar c’è dolce? Manco per l’anima. Ma a volte, è necessario.