Vissuta a Londra, nata da madre irlandese e cattolica, morta a ridosso dell’incoronazione di re Edoardo VII, il personaggio chiamato Anna cammina nell’infinito deserto dell’oltretomba, in un luogo dal quale alcune anime talvolta stabiliscono un contatto con il mondo fuggevole della vita. Così, accade che all’improvviso, in autunno, la sua voce compaia nella mente di una donna senza nome, di cui sappiamo pochissimo: è dei nostri giorni, vive ed è impiegata in una grande città, ha un marito, di tanto in tanto si rifugia in una casa semivuota ereditata da una zia a incontrare un amante più anziano o a farsi un lungo bagno. Resoconto in presa diretta dei dialoghi tra queste voci, l’ultimo libro di Maurizio Torchio, L’invulnerabile altrove (Einaudi, € 17,50, pp. 160), affida la narrazione univocamente all’io della donna innominata; ma lo spazio enunciativo del testo è di estrema complessità: quale statuto affidare alle parole di Anna?

La sia pur flebile cornice narrativa e l’uniforme sintassi paratattica le relegherebbe a prodotto della mente delirante della narratrice e dunque voce nella voce, discorso di secondo livello. Tuttavia anche Anna parla attraverso la prima persona – distinguiamo le sue frasi attraverso un espediente grafico (i caratteri in grassetto) – e sostiene di esistere in un mondo autonomo: un «Dopo» eterno, contrapposto al «Prima» della vita «viva».

La focalizzazione della prospettiva saldamente incardinata alla narratrice forza il lettore a scindere il suo soliloquio delirante in un dialogo tra due personaggi dalla medesima legittimità diegetica e perfino ontologica. Grazie a questo gioco ardito con la credulità del lettore e con la polifonia, la realtà «vera» (quella mimetica della donna innominata) scivola in secondo piano, osservata spesso con straniamento, mentre le parole di Anna largheggiano su tutto ciò che attende il vivente (animali e piante compresi) dopo la soglia della morte: un lento risveglio in un deserto sterminato di sabbia solcato da fiumi, nel quale la condizione naturale è quella della marcia forzata verso una meta imperscrutabile.

Nel suo mondo spiccano da un lato la negazione dei più elementari fondamenti che regolano la realtà (come il principio di non contraddizione: le anime hanno e contemporaneamente non hanno un corpo, una voce, un respiro; la morte non è il contrario della vita, e così via); d’altro lato la lontananza con la concezione dell’aldilà cristiano (le anime non sono organizzate teleologicamente secondo un sistema di valori morali, né vengono punite, redente o glorificate per le azioni compiute in terra), nonostante la vicenda e il tono a volte febbrile della voce narrante rimandi all’immaginario della tradizione mistica cattolica.

I dialoghi con Anna hanno un potere di affabulazione tale che il lettore si dimentica facilmente del mondo narrativo di primo grado: le scene da questa parte della realtà (una spesa al supermercato, un viaggio in motorino, l’arrivo e l’uscita dall’ufficio) sono solo uno sfondo stinto delle conversazioni metafisiche di cui è tessuto il romanzo. La realtà appare costantemente incrinata dallo straniamento dello sguardo folle della protagonista, che emerge solo attraverso rari (quanto inequivocabili) segnali testuali, i quali rivelano la progressione di una crisi psicotica esiziale (che la porta infine, borbottando tra sé, a lasciare il lavoro per passeggiare nuda nelle strade).

La costruzione graduale della legittimità dei due mondi, mentre si concentra sullo statuto dei personaggi (o, meglio, delle voci) porta il lettore a un dubbio radicale sulla esistenza di una realtà univoca. Come nel celebre sogno della farfalla del maestro taoista Zhuangzi, leggendo le pagine di Torchio si dubita della propria presenza («Provami di essere esistita» Dici sul serio?… Provamelo tu allora. …«È vero. Io pura voce nella testa di Anna»), tanto più che la voce di Anna assume una consistenza (a partire dal nome) e una storicità (è radicata nella cultura proletaria londinese della seconda metà dell’Ottocento) propria di un personaggio, e di cui la protagonista innominata paradossalmente non gode: «Anna rivestita di particolari, io nuda».

Già nel precedente Cattivi (Einaudi, 2015) Torchio metteva in scena un rovesciamento spaziale che sfidava le intuizioni umane più empiricamente accertate: il carcere diventava allora una società a sé, i cui confini erano le mura, e viceversa la vita fuori appariva come dietro le sbarre. Qui, più radicalmente, i confini indagati sono quelli dell’io, che scopre un «altrove» invulnerabile (dunque inaccessibile, solipsistico) e interno, mentre la realtà perde progressivamente di senso: «Dietro a ogni palco dev’esserci una porta, e tu mi hai aiutato a scoprirlo. Se queste ossa della nuca fossero vere, non ci saresti». L’io, in una tentata inversione dello sguardo oltre «il margine buio al confine degli occhi» scopre, voltando le spalle al nostro mondo, la trasformazione di una voce in personaggio, lo sconcertante lavorìo dell’immaginazione e della poiesis letteraria.