Alla fine, di spalle e in controluce, ritagliata nella via di fuga di un classico ponticello veneziano, una sfumatura che strizza l’occhio al Guardi e a Friedrich (contemporaneamente), il protagonista Don Marzio di nero bardato, mantello e tricorno, si allontana guardingo, l’ombra di un Casanova in pensione, mentre tutt’intorno, sul campiello, le finestre come occhi discreti, si accendono e spiano il vuoto, il silenzio, l’apnea della quotidiana indecenza che è la vita. Si chiude su questa immagine rarefatta e dolente, la goldoniana Bottega del caffè che, nella insopprimibile cornice dell’Expo, ha debuttato al Piccolo, per la regia di Maurizio Scaparro (produce il Teatro della Toscana, assurto a rango «nazionale«).

Il commiato, forse lo stesso autore, è la fine del giorno, il brusio si attenua, il vocio si spegne, la chiacchiera appassisce mentre il Carnevale declina le sue ultime battute. La festa non è finita ma la pausa ammette qualche oasi di riflessione. Scritta nel 1750, una delle 16 per una sola stagione, la commedia ruota sul perno del titolo, come una giostra infantile e una clessidra impazzita.

Le maschere si tolgono il vezzo (Scaparro lo cita in apertura di sipario liberandoci di Arlecchino e Colombina con un delicato colpo di scena e due ceffoni ben dati) e recitano, in italiano, così che tutti possano comprendere, il carosello osceno della «realtà», quel fastidioso incedere della giornata di tutti i giorni, inanellata di screzi, maldicenze, ricatti, vizi e vizietti, menzogne e falsità, pettegolezzi e calunnie, profittatori e arrivisti, furti e tradimenti. Il catalogo è questo. Inutile illudersi. Il mondo (l’umanità) è ancora assai giovane e che possa cambiare è puro illusionismo di facciata.

Lo sapeva bene Goldoni che non cessa di mettere ordine nelle sue trame, ma sempre svelandone le falle, i buchi neri, le pulsioni dark. Un mondo inquieto, affatto pacificato, anche questo del Caffè, che esordiva come bevanda globale, aperitivo in laguna e rito meneghino, dove puntò l’obiettivo nel 1969 l’acrobatico e ruvido Rainer Werner Fassbinder per cavarne una versione al passo coi tempi di piombo e con la sua poetica, feroce e «maudit».

Increspata appena dalle note di Nicola Piovani, la Bottega di Scaparro non si concede all’attualità (non ce n’è bisogno: di scommesse e slot machine del tutto legali sono piene le casse dell’erario, 9 miliardi di euro l’anno) e lavora sui sentimenti e gli obiettivi, uomini contro donne , borghesia contro proletariato, verità contro maldicenza, liquidità marina contro salinità sentimentale, l’ossessione del gioco e l’astuzia del desiderio.

Tutto passa per questa meridiana veneziana, microcosmo attualissimo tanto più ora che il Leone sventola leghista, intercettato da Don Marzio, bersaglio e stratega del pentagramma, con la furbizia antica di un Pino Micol in stato di grazia. La lontananza è servita e il disincanto vede passare nel bacino di San Marco l’ultima sera di Carnevale che non sarà, c’è da scommetterci, l’ultima nave monstre da crociera.