Si parla molto, e giustamente, della necessità di un panorama editoriale più diverso, più inclusivo, che si apra a voci letterarie finora lasciate in ombra. Meno si dice, però, sui percorsi necessari per raggiungere questo obiettivo, magari in tempi lunghi, che vadano oltre le parole d’ordine del momento.
Per esempio, del declino nell’insegnamento della geografia, materia fondamentale per capire com’è fatto il mondo «là fuori» e tuttavia considerata quasi ovunque secondaria, sembrano preoccuparsi in pochi. Fra loro Iain Freeland, responsabile del settore per l’Ofsted (l’ente britannico cui compete la valutazione dei parametri educativi), che in un recentissimo intervento rilanciato da Schoolsweek ha messo in luce come i docenti effettivamente preparati per questo compito siano rari nel Regno Unito (un problema a suo tempo segnalato anche in Italia).
E poca attenzione viene data allo squilibrio nella conoscenza delle lingue e nella circolazione delle opere letterarie. Che l’inglese domini incontrastato nei sistemi editoriali di tutto il mondo viene dato per scontato, senza che ci si renda conto degli effetti, a volte paradossali, di questo strapotere: non ultimo, che pure la benedetta inclusività finisce spesso per diventare un fenomeno di importazione.

Per fortuna, proprio in campo anglofono, c’è chi cerca di osservare la produzione libraria da una prospettiva davvero globale: è il caso del Literary Saloon di Michael Orthofer, prezioso repertorio quotidiano di informazioni editoriali setacciate nei cinque continenti, o della rivista online Words Without Borders, che compie diciott’anni in questo 2021 e che si è data l’obiettivo di «espandere la comprensione culturale attraverso la traduzione, la pubblicazione e la promozione della migliore letteratura internazionale contemporanea».
Perfetto esempio di questa curiosità è il dossier che apre il numero di maggio, audacemente dedicato alla produzione letteraria mauritana. Certo, lo spunto che ha spinto la rivista a indagare una delle letterature meno note al mondo è, manco a farlo apposta, americanocentrico: l’uscita del film hollywoodiano The Mauritanian, basato sul diario di Mohamedou Ould Slahi, a lungo detenuto e torturato a Guantánamo. Ma è sempre meglio prendere quello che di buono offre la vita, in questo caso un lungo articolo in cui July Blalack analizza il paesaggio culturale mauritano, ben più articolato di quanto potrebbe immaginare chi non conosce il paese, e alcuni testi narrativi e poetici tradotti in inglese dall’arabo e dal francese. Da segnalare in particolare Outsider Mode, stralcio di un romanzo di Ahmed Isselmou in cui si ipotizza una nuova moneta mondiale legata alla produttività sul lavoro e fatta oggetto di un poderoso attacco cyber – non proprio quello che ci si aspetta da un autore mauritano.

Del resto Blalack, approdata nel 2015 nella capitale Nouakchott per seguire il festival Traversées Mauritanides e folgorata dagli stimoli offerti da questo paese dove l’intreccio di lingue e culture ha portato in passato a scontri violenti, sta traducendo in inglese romanzi di fantascienza mauritana. E nel suo intervento su Words Without Borders sottolinea una sorta di doppio movimento: «La posizione del paese – a cavallo tra la sfera arabofona e quella francofona e che mette in contatto tra loro le culture Pulaar, Wolof, Soninke e arabo-maure – si presta a una letteratura di movimento, migrazione e adattamento rivolta all’esterno. Al tempo stesso, paradossalmente, la divisione interetnica della Mauritania e la resistenza all’ibridazione portano un senso di stasi a queste stesse storie».
Un territorio da esplorare, insomma, ammesso qualcuno se ne accorga.