Fin dal momento in cui, nel maggio del 2015, lo Stato Islamico si insediò a Palmira distruggendone i monumenti più celebri e originali – tra cui i templi di Bel e di Baalshamin – nonché alcune delle torri funerarie che si elevavano nella cosiddetta Valle delle Tombe (danni consistenti sono stati provocati dai soldati del Califfo nero anche all’arco di trionfo, al tetrapilo e al teatro, senza dimenticare gli scavi clandestini e il traffico di reperti seguiti all’occupazione della città greco-romana da parte dell’esercito regolare siriano ancor prima della presenza sul sito dei jihadisti e delle truppe russe), Maurice Sartre ha difeso a gran voce l’unicità della «Sposa del deserto» nel quadro del patrimonio archeologico della Siria e dell’intero Mediterraneo. Al contempo, lo specialista dell’Oriente romano, professore emerito dell’Università di Tours, non ha mai smesso di denunciare i crimini perpetrati in Siria dal regime di Bashar al-Assad né di tenere alta l’attenzione sulle migliaia di civili torturati nelle carceri-lager, morti sotto le bombe o a causa delle armi chimiche, e sui milioni di profughi che non hanno ancora fatto ritorno in un paese solo apparentemente pacificato. Perché uno studioso del mondo antico non dovrebbe mai esimersi dal mettere in pratica quei principi etici universali che antepongono il rispetto per la vita umana a qualsiasi ricerca scientifica.
Sartre, che ha dovuto lasciare la Siria all’inizio della guerra civile, ha disseminato il suo bagaglio di conoscenze relative ai monumenti, all’arte e all’epigrafia di Palmira nei quotidiani francesi e nelle principali testate estere (un’intervista è stata rilasciata anche al manifesto il 13 giugno 2015), in televisione e nell’ambito di convegni internazionali. Alla città carovaniera Sartre ha dedicato, negli ultimi anni, due libri di alta divulgazione. Il primo di questi – scritto nel 2016 con Annie Sartre-Fauriat (Palmyre. Vérités et légendes, Perrin), sulla scia dell’ondata di commozione ma anche di speculazioni e «fake news» generatasi dopo la devastazione del sito tra il 2015 e il 2017 –, ha l’obiettivo di sfatare alcuni miti sulla «Sposa del deserto», le cui maestose rovine furono rivelate all’Europa nel 1753 con la comparsa di Ruins of Palmyra, otherwise Tedmor in the desart, il fortunato resoconto di viaggio di Robert Wood e James Dawkins corredato dalle tavole di Giovanni Battista Borra, per restituirne la vera identità cosmopolita (nella medesima direzione va il ritratto controcorrente della «regina» Zenobia cofirmato nel 2014 da Sartre sempre per Perrin). L’ultimo volume, pubblicato nella versione italiana da Einaudi (La nave di Palmira Quando i mondi antichi si incontrano, «Saggi», traduzione di Daria Cavallini, pp. VIII-232, euro 28,00), intende invece accompagnare il lettore in un percorso che origina da un’ossessione contemporanea: la globalizzazione.
Gli storici hanno dimostrato che lo scambio di informazioni, di conoscenze e beni è in atto su scala globale almeno dal XVI secolo ma gli studiosi dell’antichità sono rimasti al margine di un dibattito teso a spogliare la storia dei popoli dell’eurocentrismo. Se durante il lasso di tempo preso in considerazione da Sartre – 600 a.C. – inizi del VII secolo d.C. – non si può parlare di globalizzazione, in quanto alcuni continenti erano all’oscuro dell’esistenza degli altri (i popoli dell’Europa, ad esempio, non conoscevano l’America e l’Oceania), bisognerebbe ammettere con l’autore che l’estremo frazionamento della Storia in campi sempre più circoscritti (nessuno padroneggia tutte le lingue antiche parlate un tempo dall’Atlantico all’Indo e fino al Mare della Cina) ha instillato nelle menti delle persone una visione semplicistica: la storia della Grecia segue quella dell’Egitto, quella di Roma viene dopo quella della Grecia e via discorrendo. Tale assioma ha impedito di comprendere «il gioco di influenze e scambi» che caratterizzano non il mondo ma piuttosto i mondi antichi. «Cosa sarebbe la Grecia classica senza l’adozione dell’alfabeto fenicio?», chiede Sartre. Come arrivano nell’impero romano la seta per confezionare l’abbigliamento delle ricche matrone o l’incenso da offrire nei templi? E i bronzi greci e romani rinvenuti nelle tombe della Scandinavia o nei kurgan della Siberia, i vetri fenici e le ceramiche romane sparsi in India o in Asia centrale non sono forse testimonianze di contatti perlomeno indiretti?
Con questo saggio, Sartre scandaglia le fonti letterarie, epigrafiche e archeologiche per fare il punto sulla mobilità degli antichi e sui collegamenti che si instaurano dal Mediterraneo con il Baltico e il Corno d’Africa ma anche Ceylon, il Golfo del Bengala o il Turkestan cinese. Servendosi di un espediente già utilizzato nelle sue Histoires grecques (Seuil 2006), l’autore sceglie di analizzare il tema in quindici capitoli, basando ciascuno di essi su un documento, scritto o «pittorico», che possa suscitare interrogativi più ampi. Attraverso un’esposizione rigorosa e chiara, che non lascia spazio all’immaginazione ma apre orizzonti oltre i quali lo sguardo si posa raramente, il lettore ripercorrerà il cammino della scoperta delle terre più settentrionali d’Europa – l’Ultima Thule – assieme al massaliota Pitea, per poi avventurarsi nei racconti sulla circumnavigazione dell’Africa con Necao e Annone, e giungere poi nella regione dello Xinjiang, dove vivono uomini con occhi azzurri e capelli rossi. Sartre invita il lettore a non seguire soltanto Erodoto e Strabone ma ad aprirsi alla voce discordante di Ctesia, così come a interessarsi a Teofilo Indiano e a Cosma Indicopleuste, a Fan Ye e all’epigrafia indiana.
Uno dei capitoli più appassionanti di questo prezioso volume, arricchito da un apparato iconografico a colori, è incentrato su un epigramma funerario greco che si colloca approssimativamente tra la fine del IV secolo a.C. e il I secolo d.C., appartenente a una collezione privata ma proveniente quasi con certezza da Kandahar o dalle zone circostanti, ovvero dalle antiche province di Aracosia e Battriana, nell’Afghanistan orientale e settentrionale. «Io, Sophytos, della stirpe di Naratos avendo coltivato i talenti dell’Arciere e delle Muse uniti a una nobile saggezza, rifletto sui mezzi per ricostruire la mia casa ancestrale; (…) ho lasciato il mio paese deciso a non tornare finché non avessi accumulato ricchezze; e così, dedicandomi al commercio e andando in molte città ho acquisito, senza subire alcun danno, un vasto patrimonio». Nonostante la finezza del suo poetare in greco, Sopthytos era indiano. Sartre ricostruisce la «vita movimentata» del personaggio, immergendoci nella cultura greca ai confini dell’India, dell’Iran e della Cina.
Un’iscrizione datata al 157 d.C. e trovata nell’agorà di Palmira – il cui testo era stilato, come consuetudine, in greco e (parzialmente) in aramaico palmireno – offre un’altra inaspettata opportunità di viaggio. L’epigrafe, una base di statua dedicata a Marcus Ulpius Iaraios, menziona infatti «i mercanti riportati dalla Scizia nella nave di Onainos». Abituati all’immagine delle carovane che – attraverso la via dell’Eufrate – si spingevano fino al porto di Spasinu Charax nel Golfo Persico, stentiamo a credere che Palmira, situata nel deserto a duecento chilometri dal Mediterraneo, potesse annoverare fra i suoi abitanti un armatore. Eppure, la rappresentazione di una nave dalla forma tondeggiante e dalla vela quadrata in un bassorilievo del tempio di Bel, di mezzo secolo successivo all’iscrizione, induce a pensare a una nave mercantile. Il proprietario è raffigurato, con pantaloni ricamati e una tunica plissettata, accanto all’imbarcazione. Dunque, parafrasando Sartre, i Palmireni erano ovunque. E ciò continua a essere vero ancor oggi, malgrado il tentativo di distruggere la memoria di Palmira con l’abbattimento di monumenti e sculture, e con il massacro di un popolo che di un così vasto e variegato patrimonio culturale è il principale erede.