Alcune recenti pubblicazioni sembrano recuperare, in una chiave ecologico-politica, la filosofia del corpo di Maurice Merleau-Ponty, da sempre sospesa in una sorta di eterno presente, ma in fondo poco letta o, comunque, apparentemente poco incisiva nella discussione intellettuale di impianto critico. Tra queste, il volume di Prisca Amoroso e Gianluca De Fazio, Tema su variazioni. Un laboratorio merleau-pontyano (Mucchi, pp. 108, euro 13). Nel titolo risuona una domanda che ci riguarda: è possibile improvvisare? Smarcarsi dalle linee di forza storico-politiche che telecomandano le nostre esistenze individuali e sociali? E, su scala globale, possiamo realmente emanciparci dagli algoritmi tecno-vitali, dall’eterodirezione delle coscienze? Soprattutto: può il corpo, prima ancora del soggetto, giocare davvero un ruolo in tali questioni?

Serve un cambio di prospettiva, uno spostamento dello sguardo sull’origine natural-materiale di ogni soggettività (anche politica), iniziando con una rivalutazione – in una teoria critica – della natura, della corporeità, persino dell’organismo biologico. L’organismo, nel suo specifico rapporto tra ripetizione e variazione, tra costruzione sensata e impulso vitale, rappresenta un caso paradigmatico (per noi) di come si possa comporre/subire un tema e contemporaneamente eseguirne le variazioni: esprimere mentre si comprende diversamente. Ma questa strana compenetrazione della divergenza (clinamen) nella necessità, acquisisce il suo senso solo pensandola entro un frame ecologico-relazionale, cioè dentro una logica di reversibilità tra il proprio interno e l’esterno.

RITORNA CENTRALE, ad esempio, il primo libro di Merleau-Ponty, datato 1942, quel La struttura del comportamento da poco ritradotto per Mimesis (a cura di Alessandra Scotti con prefazione di Rocco Ronchi). Il corpo (Leib) è oggi la questione teorica ma anche politica, nel suo rendere possibile l’intersoggettività, nel suo presentarsi quale dispositivo non soggetto a nessun calcolo e che, in modo naturale, può sottrarsi alla propria capitalizzazione integrale (cosa che, a conti fatti, nel moderno non è riuscita al soggetto): corpo resistente anche e soprattutto quando ripete lo schema del suo stesso assoggettamento. Può dunque essere questo l’antidoto complesso, attivo/passivo, contro la totale amministrazione del mondo?
Non può darsi oggi una reale critica al capitalismo che non sia anche una riflessione di taglio profondamente ecologico. Non esiste comportamento davvero politico, cioè storicamente efficace, senza un pensiero che problematizzi il nostro rapporto con l’ambiente. È la lezione di Merleau-Ponty: qualunque siano le forze storico-materiali in campo, noi siamo parte della natura, senza mai coincidervi totalmente: quella di un’autonomia nella relazione è dunque la prima istanza ecologica da recuperare in chiave critica.

MOLTE DI QUESTE LINEE emergono anche in Scienza, tecnica, capitalismo. Una prospettiva ecologica (Mucchi pp. 205, euro 16), ultimo volume di Officine Filosofiche, gruppo coordinato da Manlio Iofrida e Ubaldo Fadini, con un dossier (curato da Andrea Angelini) che indaga rilevanti questioni di frontiera tra epistemologia e biologia, così come in Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia (Quodlibet), dello stesso Iofrida. Qui la proposta è quella di una originale ecologia critica, che rilancia i temi della passività, dell’istituzione e del lavoro, cioè al contempo della natura e della storia. La filosofia di Merleau-Ponty vi emerge non come un’ontologia del corpo contemplativa e confermativa dell’esistente storico – come troppo spesso è stata letta – bensì come un materialismo aperto, laicamente proteso verso nuove forme di relazione, di vita, di società. Ripartire dal corpo e da una filosofia della relazione ecologica significa riscoprire il sapore di una rivoluzione, nella misura in cui essa riguarda tutti i rapporti: di produzione, dei soggetti, dei viventi. Tutti i rapporti: quelli che vediamo, ma anche quelli che possiamo solo immaginare, attraverso il corpo.