Nasce nel 1923. A vent’anni partecipa alla liberazione di Parigi. Capisce subito che la Francia liberata è ancora solo un progetto. In un primo tempo, guarda all’architettura. Poi alla filosofia – quell’esistenzialismo che nel dopoguerra si impone proprio sul tema della libertà. È nel ’49, incontrando il primo teorico del lettrismo Isou « Isidore » Goldstein, che Maurice Lemaître (scomparso il 3 luglio) diventa se stesso. Se Isou ha fornito al lettrismo un programma, Lemaître è quello che lo ha praticato con più forza, costanza, intensità, declinandolo in tutte le direzioni.

 

Qual è questo programma? Invece di definirlo, guardiamo una videointervista del 1955 (mauricelemaitre.fr). Siamo nei locali della Librairie Fischbac a Saint-Germain-de-près. Isou, Lemaître e Spacagna declamano (e cantano) dei versi incompresibili. Forse è una lingua sconosciuta. Sembra l’idioma gli indiani Guayaki, ma Pierre Clastres non ha ancora pubblicato le sue ricerche. Orson Welles chiede a Lemaitre: «Spieghi cosa sono questi suoni che avete trovato e che chiamate lettere». Lemaitre non spiega. Fa altri suoni. E dice che questi sono nuovi, sono diversi da quelli che si usano in genere.

 

C’è nel Lettrismo un rifiuto del simbolismo. Il simbolo, si sa, è all’origine una medaglietta che, spezzata in due parti, ciascuna delle quali consegnata ad una persona diversa, permette di riconoscersi quando le metà vengono ricongiunte.Ora, la teoria linguistica dice che nel segno il legame tra il significato e la sua forma esterna è arbitrario. Per il lettrista non è abbastanza; il lettrista vuole denunciare il nesso tra forma e contenuto; dice questo legame non è predeterminato, esiste solo nella misura in cui l’interlocutore lo produce, a titolo individuale ed effimero. Per il resto, il segno non vuol dire null’altro che se stesso. Ascoltando la poesia che apre l’intervista, qualcuno potrebbe associarne i suoni all’immagine del sangue. Ma è affar suo e solo suo. In un certo senso i lettristi applicano al linguaggio quell’idea esistenzialista che Sartre sviluppa nell’Essere e il nulla e che il filosofo illustra trivialmente con piccole istantanee di Saint-Germain – come il famoso «garçon de café»: pretendere che ci sia un senso è, per il lettrista, un atto di «mauvaise foi», di malafede. Ma le immagini non sono cose?

 

Lemaître gira il suo primo film nel ’51. Il 12 novembre Le film est dejà commencé? è proiettato per la prima volta al Musée de l’Homme. Poi di nuovo il 7 dicembre in un cinéclub. L’idea è quella di creare uno spettacolo totale o «syncinema». Reagendo così al cinema tradizionale, il quale, secondo Lemaître, non utilizza che una parte infima dell’arte.

 

«Le film est dejà commencé?» comincia col dissociare il suono e le immagini. Le immagini raccontano una cosa. La voce off un’altra. Certo, la voce off sembra commentare quello che accade sullo schermo. Ma se c’è una riflessione è solo per dire che questa è impossibile. L’off non fa altro che parlare del sé: di come il cinema deve essere o sarà (un procedimento tipico di tutto il cinema lettrista ma che anticipa il cinema situazionista).

 


La voce è allora non una cosa ma una sorta di coscienza, un grillo parlante che si parla addosso ma che come ogni coscienza è un teatro in cui quello che appare è una scena popolata di fantasmi, attori, scenografie… Di cose dunque. Mentre il teatro in sé resta nell’ombra. Altro metodo di distruzione del senso è quello plastico. Lemaître disegna, sfregia, incide la pellicola con segni di ogni tipo. Che cosa vuol dirci? Ancora una volta, nulla: non c’è un senso o tutto è esattamente quello che è.

 

Forse Lemaitre esagera dicendo che Andy Warhol non ha aggiunto nulla che il lettrismo non avesse già fatto. Ma è certo che l’influenza di Lemaître è stata molto potente. Era convinto (lo dice in un’intervista del 1975) che il cinema avesse raggiunto il suo apice con gli iconoclasti degli anni trenta: Griffith, Murnau, Stroheim, Lang… E che da quel momento in poi non avesse fatto altro che impoverirsi.

 

Molto del cinema di Jean-Luc Godard ripete questo paradosso: il cinema è un’arte che nasconde se stessa (la sua potenza) / il cinema è la sola arte capace (che ha la potenza) di scoprire se stessa. Anche Eustache, quando punta la macchina da presa sulla parola (Une Sale histoire) o sull’immagine (Le Jardin des délices de Jérôme Bosch), non fa altro che prolungare il dialogo che Lemaître inizia in Chantal D. Star e che questi prolunga fino agli anni duemila (il suo ultimo film, Resilience, è del 2007). Del movimento lettrista, era l’ultimo ancora vivo. Quanto alla spinta anarchica che il lettrismo interpretava, la pretesa che esista un senso naturale delle cose è da lungo tempo ridiscesa come una cappa di piombo sulle nostre teste. Hélas.