Un Benyamin Netanyahu sorridente come non mai, ieri ha dispensato elogi su elogi agli alleati americani per il «cambiamento» nella strategia statunitense in Medio Oriente. Accanto a lui, il premier israeliano aveva il Segretario alla difesa James Mattis in visita nella regione e già passato per due capitali «alleate» Riyadh e il Cairo. «Percepiamo un grande cambiamento nella direzione della politica americana», ha detto Netanyahu riferendosi al recente attacco missilistico in Siria ordinato da Donald Trump e al muso duro americano verso l’Iran. Dopo gli otto anni di presidenza di Barack Obama con il quale il primo ministro israeliano aveva avuto rapporti gelidi su molti temi, a cominciare dall’accordo internazionale sul programma nucleare iraniano, adesso il governo Netanyahu sa di poter contare su una Amministrazione americana pronta ad usare, e senza esitazioni, il pugno di ferro contro i principali nemici di Israele: Iran, Siria e Hezbollah.

Mattis da parte sua, durante la conferenza stampa con il suo omologo israeliano Lieberman, ha lanciato altre pesanti accuse Bashar Assad, sostenendo che la Siria ha conservato la capacità di utilizzare ordigni chimici nonostante il programma di smantellamento dei suoi arsenali decisi nel 2013. Naturalmente Mattis non ha indicato quante e quali armi chimiche sarebbero in possesso di Damasco. Ha solo lanciato accuse, per condizionare e orientare la comunità internazionale, come gli Usa fecero nel 2003 quando, per giustificare l’aggressione all’Iraq, accusarono il regime di Saddam Hussein di possedere, oltre ogni legittimo dubbio, armi di distruzione di massa in realtà inesistenti. «Non ci devono essere dubbi nella comunità internazionale che la Siria abbia conservato armi chimiche in violazione dei suoi accordi e delle sue dichiarazioni sul fatto di averle rimosse. Non ci può più essere alcun dubbio», ha proclamato il Segretario alla difesa. Quindi ha ammonito Damasco a non utilizzarle più dopo il presunto attacco del 4 aprile nella provincia di Idlib al quale Trump, sollecitato anche dalla figlia Ivanka e dal genero e consigliere speciale della Casa Bianca Jared Kushmer, ha risposto ordinando il lancio di 59 missili Tomahawk contro la base aerea di Shayrat. Mattis ha taciuto sul fatto che sono proprio gli Stati Uniti a non volere una indagine indipendente su quell’attacco chimico, visto che dopo due settimane non si è mosso nulla.

Con il classico lessico indeterminato degli Stati Uniti in queste situazioni, Mattis e prima di lui Trump e il segretario di stato Tillerson, hanno preso di mira ancora una volta l’Iran. Prima hanno riconosciuto che Tehran rispetta appieno gli obblighi dell’accordo nucleare poi hanno deciso che sia necessario «valutare se la sospensione delle sanzioni che l’Accordo comporta sia nell’interesse degli Usa». Trump accusa Tehran di essere uno dei principali «sponsor del terrorismo» – poiché appoggia Assad e Hezbollah – mentre sono proprio gli amici degli americani – sauditi, qatarini, kuwaitiani – i principali finanziatori dell’Isis, di al Qaeda e di altri gruppi armati. «Dove vi siano guai nella regione, c’è lo zampino dell’Iran» proclama Mattis, uno dei falchi dell’Amministrazione Usa, che qualche tempo fa avrebbe visto con favore un attacco militare americano all’Iran e che ancora adesso non esclude un’azione di forza.
Gli iraniani non sono certo degli agnellini, i loro interessi sono evidenti e li portano avanti con decisione. Ma non sono i principali destabilizzatori della regione, se si tiene conto del ruolo che hanno avuto e continuano ad avere la Turchia, l’Arabia saudita e altre monarchie del Golfo a sostegno delle forze sunnite armate più radicali. Il sultano Erdogan per anni non ha fermato il flusso di foreign fighters che passando per la Turchia entravano in Siria e Iraq. I suoi servizi di sicurezza sono stati decisivi per far arrivare a destinazione i più fanatici sostenitori del jihad.

Nessuna parola di Mattis per l’occupazione israeliana e la situazione nei Territori palestinesi dove, peraltro, è giunto al sesto giorno lo sciopero della fame che attuano centinaia di prigionieri politici palestinesi, in risposta all’appello lanciato dal leader di Fatah Marwan Barghouti. Gli elogi di Netanyahu all’Amministrazione Trump sono ampiamente giustificati.