C’è l’Iran al centro dei colloqui che James Mattis avrà oggi in Israele con il ministro della difesa Lieberman e con il premier Netanyahu. Il Segretario alla difesa, a parere dei media locali il più forte nell’Amministrazione Usa subito dopo Trump, ha il compito di rassicurare il più importante fra gli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, che Washington intende mantenere Tehran sotto pressione, se necessario anche rivedendo gli accordi internazionali sul programma nucleare iraniano firmato quasi due anni fa. E sotto stretta sorveglianza saranno inoltre le attività iraniane, politiche e militari, nella regione: Siria, Yemen e Iraq. Musica celestiale per Netanyahu che nel 2015 aveva dovuto digerire l’intesa con Tehran voluta, contro la posizione di Israele, dall’ex presidente Barack Obama.

La politica estera della nuova Amministrazione è sempre avvolta nel fumo, con proclami, non solo di Trump, che puntualmente vengono smentiti il giorno successivo da una sequela di ammissioni, contraddizioni, ripensamenti e accuse. In Medio oriente come in altri scenari. L’ultimo protagonista di questo balletto di dichiarazioni è Rex Tillerson. Dopo due mesi in cui, di fatto, ha messo la diplomazia americana nelle mani dell’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley, ad aprile si è improvvisamente destato mettendo in un mostra un piglio aggressivo che ha colto di sorpresa coloro che già lo descrivevano come il Segretario di stato meno influente degli ultimi decenni. Tillerson è sulle prime pagine dei giornali iraniani per la lettera che ha inviato al presidente della Camera dei Rappresentati, Paul Ryan, nella quale ha scritto che il Dipartimento di Stato americano ha certificato che il comportamento dell’Iran «è conforme fino al 18 aprile ai suoi impegni» presi con la firma dell’accordo sul nucleare. La soddisfazione di Tehran è durata poco. In linea con l’imprevedibilità di Trump, Tillerson ha corretto la rotta annunciando nuovi accertamenti poichè «senza verifiche sull’accordo sul nucleare l’Iran potrebbe seguire la stessa strada della Corea del Nord». Gli Stati Uniti, ha aggiunto «devono valutare ogni minaccia posta dall’Iran». Secca la risposta del ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif: «Le logore accuse degli Stati Uniti non possono mascherare l’ammissione di conformità dell’Iran all’accordo sul nucleare» che «obbliga gli Usa a cambiare corso e adempiere ai propri impegni».

Il presidente iraniano Hassan Rohani e il suo entourage invitano alla calma. Sono convinti che, nonostante le minacce di Trump, il trattato sul nucleare sarà rispettato da tutti, anche da Washington, perché in caso contrario proprio gli Usa pagherebbero costi altissimi per l’eventuale uscita dall’intesa. A cominciare dalla Boeing che, grazie alla fine delle sanzioni, a inizio mese ha firmato un accordo con la compagnia iraniana “Iran Aseman Airlines” per l’acquisto di 60 aerei passeggeri 737 Max per un importo di tre miliardi di dollari che significano anche 18 mila posti di lavoro. Tehran ostenta ottimismo e calcola al ribasso il peso delle pressioni israeliane sull’Amministrazione affinchè siano imposte nuove sanzioni all’Iran. Gli accertamenti di cui ha parlato Tillerson potrebbero scattare entro 90 giorni e saranno condotti da varie agenzie federali Usa sotto la guida del Consiglio per la sicurezza nazionale. Alla domanda se Trump sia preoccupato che l’Iran possa «imbrogliare», il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, ha risposto che il presidente «sta facendo una cosa prudenziale, chiedendo una verifica dell’attuale accordo…Se avesse pensato che tutto era ok non lo avrebbe fatto». Parte della verifica dell’accordo è «per stabilire se l’Iran lo rispetta e per formulare raccomandazioni sulla strada da seguire», ha aggiunto il portavoce. Così facendo il tycoon fa sentire il fiato sul collo a Tehran.

I passi fatti o annunciati dagli Usa sono al centro della campagna per le presidenziali in corso in Iran. Le dichiarazioni di Trump indeboliscono il presidente “moderato” Hassan Rohani a poche settimane dal voto. A dare una mano al leader iraniano uscente sono le spaccature nel fronte conservatore, incapace di esprimere una candidatura forte.