James Mattis è atterrato venerdì a Kabul, per una visita non annunciata, la quarta da quando ha assunto l’incarico di segretario alla Difesa degli Usa. Nell’incontro con il presidente afghano Ashraf Ghani, ha sostenuto in modo esplicito la nuova linea dell’amministrazione Trump: sì al processo di pace. «Ci sono crescenti indicazioni che la riconciliazione non sia più soltanto un miraggio», aveva detto ai giornalisti che lo seguivano in aereo.

«ORA C’È UNA SORTA DI QUADRO d’insieme, ci sono alcune linee di comunicazione aperte» e «il lavoro più importante è cominciare il processo politico e di riconciliazione». Il lavoro diplomatico, spesso sottotraccia, è in corso da mesi.

Prima ci ha messo la faccia soltanto Ghani, poi gli Usa hanno deciso di assumere qualche rischio ulteriore. A febbraio Ghani ha annunciato l’offerta di pace senza condizioni (almeno a parole) ai talebani, a giugno è riuscito a portare a casa il primo cessate il fuoco nel lungo conflitto afghano, 3 giorni di tregua capitalizzati anche dagli studenti coranici, che hanno dimostrato di saper serrare le fila intorno alle decisioni della leadership.
Infine, a luglio, lo storico incontro a Doha, in Qatar, tra alcuni rappresentanti dell’amministrazione Trump, inclusa Alice Wells, responsabile del dipartimento di Stato per le questioni asiatiche, e quelli del movimento talebano, che proprio a Doha hanno stabilito l’ufficio politico.

DA ULTIMO, IL 19 AGOSTO è arrivata la proposta del presidente afghano di un secondo cessate il fuoco, questa volta più lungo e condizionato all’adesione formale dei talebani, che però hanno declinato l’invito, almeno ufficialmente, e continuano la campagna militare, pur avendo ridotto gli attacchi contro il processo elettorale che condurrà alle elezioni politiche del 20 ottobre, cruciali per la legittimità di un Parlamento fortemente delegittimato e preliminari alle presidenziali programmate per aprile 2019.

Sia talebani sia americani seguono dunque un doppio binario: da una parte continuano il conflitto, dall’altra annusano l’avversario per capirne meglio le intenzioni e sapere quanto e se fidarsi. Per la prima volta dopo molti anni di guerra, sembra che entrambi abbiano capito quel che ha dichiarato pochi giorni fa, nel discorso di commiato, perfino il generale John Nicholson, a capo delle truppe Usa e di quelle Nato per ben 31 mesi.

«È TEMPO CHE QUESTA GUERRA finisca» ha detto Nicholson, che verrà sostituito dal generale Scott Miller, una lunga carriera nei settori delle Operazioni speciali e poco dimestichezza, ha sottolineato il New York Times, con la complessità politica del fronte afghano.
Dove si continua a combattere, e a morire, a dispetto dei canali di comunicazione aperti tra talebani e statunitensi e della morte annunciata pochi giorni fa di Jalaluddin Haqqani, fondatore dell’omonima rete terroristica, imprenditore criminale per molti anni a capo di un impero economico-militare poi ereditato dal figlio Sirajuddin, attualmente numero due dei talebani.
L’ultima strage, rivendicata dalla «Provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico, risale a mercoledì, quando un duplice attentato ha provocato almeno 26 morti e un’ottantina di feriti a Dasht-e-Barchi, quartiere della capitale a prevalenza hazara, la minoranza sciita già discriminata e oppressa dai talebani e oggi sempre più nel mirino dello Stato islamico, che punta ad alimentare un conflitto settario. Tra i morti, gli atleti che frequentavano la palestra «Maiwand Gym», dove si è fatto saltare in aria il primo attentatore suicida, e i soccorritori accorsi ad aiutare i feriti, colpiti da una seconda autobomba. PROPRIO MENTRE IL PRESIDENTE Ghani riceveva il segretario alla Difesa Usa Mattis, dal quartiere di Dasht-e-Barchi partiva la richiesta di trasferire la responsabilità della sicurezza dai militari governativi ai cittadini. La comunità hazara si sente sempre più vulnerabile e qualcuno non ha aspettato la risposta dell’Arg, il palazzo presidenziale: uomini armati fanno già da sentinelle.