Non mancava nulla alla Parma di Carlo Mattioli. Per questo, come ebbe a scrivere Oreste Macrì, uno dei grandi animatori della vita culturale della città negli anni quaranta e cinquanta, «il pittore Mattioli era ovunque presente a illustrare e ornare la stampa della sua città da cui non si è mai mosso». Davvero non mancava nulla. Ugo Guandalini aveva fondato una casa editrice che avrebbe chiamato con il suo nome abbreviato: Guanda. Lo stesso Macrì vi aveva svolto un’infaticabile attività di traduttore della letteratura e della poesia spagnola moderne. Per Guanda nel 1939 Attilio Bertolucci invece aveva ideato una collana di libri di poesie, «La Fenice», che avrebbe proposto in anticipo ben tre Nobel: Eliot, Tagore e Jimenez. Per disegnare il logo di quella sua collana Bertolucci ovviamente aveva chiamato Mattioli, che disegnò una civetta, cara ad Athena, dea della ragione. A Parma si stampava anche un quotidiano di grande lustro, di antica matrice bodoniana, La Gazzetta di Parma: Cesare Zavattini era il caporedattore e Giovanni Guareschi il cronista in bicicletta. Lo stesso Bertolucci, con Pietrino Bianchi, erano collaboratori di punta di una terza pagina, aperta e innovativa. Nel 1937 venne tentato anche l’esperimento di una pagina dedicata alle arti visive, sulla quale sarebbe comparsa la firma proprio di Carlo Mattioli. In quegli stessi anni, Giovannino Guareschi aveva lanciato «Bazar», il suo primo giornale umoristico, stampato a Parma e sul quale Mattioli si mise in luce con le sue calibratissime caricature.

Mattioli si era cimentato anche come pittore, con una vocazione a tener alto il nome della sua città (per altro adottiva: in realtà era nato a Modena). Formatosi in una scuola di arti applicate, nel 1942 aveva realizzato quattro grandi affreschi per lo stand di una fiera di «conserve alimentari», con soggetti come l’esaltazione dell’allevamento e dell’orticultura. La prima mostra sarebbe arrivata l’anno dopo, ma fuori patria, a Firenze. «Mattioli ha scoperto nelle proprie qualità la sua strada di artista», scrisse in quell’occasione Alessandro Parronchi nel saggio di catalogo. Non rinunciò comunque alla sua naturale predisposizione per la grafica: così a inizi anni cinquanta ebbe modo di disegnare la copertina di «Paragone», la rivista fondata da Roberto Longhi, perfetta nella sua ordinatissima eleganza. Una formula che replicò con poche varianti per «Palatina», «l’ultima impresa corale degli intellettuali parmensi riuniti in cenacolo» (Marzio Dall’Acqua), rivista diretta da Roberto Tassi, che sarebbe diventato poi il suo critico di riferimento. Dopo di allora per Mattioli fu solo pittura.

E fu tanta pittura.

Sono trascorsi quasi vent’anni dalla morte dell’artista, avvenuta nel 1998, e Parma ha voluto far quadrato attorno a lui, pubblicando un catalogo generale dei dipinti a olio, con un piglio orgogliosamente autoctono: l’editore è Franco Maria Ricci, la curatrice è l’amatissima nipote dell’artista, Anna Zaniboni Mattioli, lo sponsor è Crédit Agricole Cariparma. In città intanto è stato aperto ed è visitabile Palazzo Smeraldi, l’ultimo atelier dell’artista. A completare il programma è stata annunciata per fine maggio una grande mostra al Labirinto della Masone a Fontanellato.

Il catalogo si compone di un volume sontuoso in perfetto stile FMR, con interventi di Enzo Bianchi, Vittorio Sgarbi e Marco Vallora; abbinata al libro una chiavetta USB contenente tutte le oltre 2700 opere schedate (euro 85,00; euro 70,00 il solo volume).

Lontano da Ghirri e da Morandi

Ma chi era Mattioli pittore? «Non è pittore-cittadino da tela bianca, da affronto mallarmeiano della superficie vergine», scrive Marco Vallora nel suo saggio denso di passione. Mattioli è «il succo proibito della Provincia. Raccoglie reperti, li vivifica, li rianima come piccoli golem indisciplinati». Fa parte, aveva confermato Ragghianti, «di questi “indipendenti” di genio autentico e di risorse proprie», la cui cattura «nella spirale delle formule fisse si rivela difficile».

Mattioli in sostanza è stato un solitario che poco si preoccupava di guardare cosa accadesse al di là di quell’enclave esistenziale e culturale che per lui è stata sempre rappresentata da Parma. È un padano sui generis, portato a declinare in modo molto unilaterale l’orizzonte astratto e piatto della pianura («ha colmato il fosso tra paesaggio mentale e paesaggio naturale, tra costruzione e sensazione», aveva scritto Luigi Carluccio). La sua pianura sembra così situarsi su tutto un altro parallelo rispetto a quella di Morandi e Ghirri. È intrisa di succhi intensi, è materica all’eccesso, a volte è incendiata di colori, che sembrano avere una matrice più psichica che naturale. È un artista in ogni senso centripeto: la sua pittura si arrocca sulla tela e sembra essere risucchiata ogni volta da un centro misterioso, come accade nella bella e famosa serie delle Aigues mortes che tanto piacevano a Giovanni Testori. Ed è centripeto nella sua autosufficienza, avendo uno sguardo sempre fieramente interno a se stesso. Uno sguardo altero, reso sicuro da quelle geometrie così ben assimilate nella sua stagione da grafico editoriale.

«Parlava con i suoi quadri, con la sua attività di grafico al servizio dei grandi libri che interpretava. Attività vera, solitaria, quasi scontrosa»: così lo aveva descritto Mario Luzi, altro affezionato frequentatore dell’enclave parmigiana. Il grande amico Bertolucci, invece, nella poesia che gli dedicò in memoria, volle insistere sulla sua miopia. Una miopia provvidenziale che lo aveva isolato e anche protetto, permettendogli di continuare indisturbato a incastonare la sua pittura sulle tele.