Un rinnovato interesse suscita oggi la scultura di Eliseo Mattiacci e più in generale il suo sfaccettato lavoro che contempla l’azione, le indagini antropologiche, la partecipazione di molti, la denuncia sociale, campi gravitazionali, vettori, visioni cosmiche. Lo dimostra l’intensificarsi di iniziative dedicate all’artista. Le ultime, in ordine di tempo, sono la bella mostra che prende il titolo di uno dei lavori esposti, il suggestivo Gong, al Forte Belvedere di Firenze, curata da Sergio Risaliti (chiude oggi) e Roma alla galleria Richard Sulton di Londra, dove Mattiacci ripropone l’installazione di ispirazione barocca realizzata nel 1980-’81 e dedicata alla città eterna (visitabile fino al 10 novembre). Le ha precedute l’antologica ordinata lo scorso anno al Museo di Rovereto da Gianfranco Maraniello.

La mostra fiorentina offre una nuova buona occasione per riflettere sul lavoro dell’artista, grazie anche allo strumento del catalogo, che, oltre ai testi del curatore, di Lara Conte e dell’astrofisico Emanuele Pace, contiene un’esaustiva antologia critica corredata da un ricco apparato iconografico (Forma edizioni, pp. 180, euro 59,00). Lo stesso percorso espositivo, costellato da circa cinquanta opere, avvicina i visitatori a molte delle principali metamorfosi nelle quali il lavoro di Eliseo Mattiacci si è incarnato, dal 1961 sino a oggi, lungo un arco di tempo che sfiora i sessant’anni.
Emerge un operato mutevole e coerente al tempo stesso. Un lavoro, soprattutto, autonomo, sebbene in sintonia, di volta in volta, con lo spirito del tempo, che lo stesso Mattiacci ha contribuito a forgiare, condotto sulla scia di visioni, fantasie, esperienze, desideri che la mostra al Belvedere sembra sfidi a rintracciare. Emerge anche un’arte impegnata, nell’agone civile come nel rinnovamento del proprio linguaggio, ma allo stesso tempo meravigliosamente scevra da disegni ideologici, mai banalizzata dal suo artefice, che, a dispetto del peso specifico di alcuni materiali impiegati, rimane, nell’ambito della creazione contemporanea, un campione insuperato di leggerezza.

Uomo meccanico del 1961, l’opera più antica della mostra fiorentina posta a suggello del percorso espositivo, il giovane Mattiacci, nato a Cagli nelle Marche nel 1940, la realizzò ancora prima di stabilirsi a Roma, dove giunse nel 1964 e dove ha vissuto a lungo, sempre al centro di significativi sodalizi. A vederla ora, con il senno di poi, questa scultura, ricavata da pezzi di ferro di recupero saldati insieme, colpisce per le gambe straordinariamente lunghe e per le antenne che proiettano l’abbozzo di figura verso l’alto.
Sono tentata di leggere in quelle gambe e in quelle antenne il bandolo di una matassa che annodi l’intero lavoro dell’artista, una sorta di fil rouge che corre da un’opera all’altra e che negli anni si è espresso tracciando innumerevoli percorsi. Percorsi che legano le persone le une alle altre nel nome di un’impresa, percorsi di avvicinamento a culture diverse dalla propria, percorsi segnati dalla potenza di un magnete, percorsi lungo i quali mantenersi in equilibrio, percorsi elicoidali, rettilinei, rutilanti, i canali misteriosi della telepatia, le onde sonore e quelle lungo le quali corre una materia che la vista non coglie, i percorsi segnati dalle traiettorie siderali, le rotte degli uccelli migranti, sino ai percorsi imprevedibili che ho visto tracciare da alcune grandi e leggere sfere lanciate a mano nei poderosi ambienti dello studio dell’artista a Pesaro, la città dove l’artista ora vive. Eredità futurista e anche, forse, l’attitudine guerrigliera di una generazione di artisti che sottraendosi alle aspettative borghesi e del mercato, nelle parole di Germano Celant, si sposta continuamente dal suo luogo deputato.

Al contrario, l’inseguire di Mattiacci l’innumerevole gamma dei percorsi possibili non credo abbia attinenza con la pratica del détournement, del frammento, del passaggio, dello scarto. È troppo legato l’artista alla materia, alla verità delle sue leggi fisiche, fiducioso dei legami che si possono instaurare, capace di ascolto, di verifiche e di pazienti osservazioni, ma anche di meraviglia e di rapimento, per spezzare un percorso da intendersi sempre come un vettore, la linea lungo la quale si muovono forza e energia da non lasciar cadere.
Al Forte Belvedere, in uno degli ambienti ai piani superiori è esposto Tubo, quasi sette metri di un tubo metallico snodabile verniciato giallo Agip. L’installazione fa una certa impressione per essere l’ambiente molto simile, in virtù del soffitto basso, alle stanze della mitica galleria romana La Tartaruga dove l’opera venne inizialmente esposta dal 4 marzo del 1967. Fu quella l’occasione di un primato che raramente viene riconosciuto a Mattiacci. Spettò a lui, infatti, realizzare la prima azione nel corso della quale un gruppo di persone si impegnò nel trasporto di un’opera lungo le vie cittadine fin dentro la galleria. Il tubo giallo che queste persone sorreggevano e trasportavano suggellava la loro collaborazione, traducendola visivamente. L’azione congiunta acquistava la potenza di un vettore che Mattiacci ha reso visibile con il colore della luce, lo stesso, a ribadire la potenza del segno, di una nota marca di benzina.

Un’altra opera capitale della biografia artistica di Mattiacci si è potuta rivedere a Firenze, Recupero di un mito, prodotta nel 1975 ed esposta nell’ex garage dove aveva sede la galleria L’Attico di Roma. Ripensandola ora, colpisce la disposizione delle foto lungo le pareti dello spazio espositivo. Sono immagini con i ritratti degli indiani d’America alternati a quelli dell’artista vestito e acconciato da pellerossa. Le foto sono allineate senza soluzione di continuità. Mosso dall’esigenza di esprimere empatia tra la sua persona e i nativi americani, la cui cultura era stata schiacciata dai coloni europei, Mattiacci ha creato una sorta di nastro, inanellando, una dopo l’altra, le immagini. Ha configurato così un percorso circolare lungo il quale ogni persona ritratta si consegna alla successiva, rimanda a essa, avallando anche l’idea che nella continuità del racconto, nel movimento mirato, meglio che nell’accumulo tassonomico o nello sconfinamento e nella deriva, veicola il pensiero, si ispessiscono i sentimenti, si configurano le forze rivoluzionarie o riparatrici.

Una forza poderosa è anche quella esercitata dal magnete che solleva una putrella di dodici metri nell’opera intitolata Equilibri precari quasi impossibili del 1991. Il prodigio avviene all’interno di una cornice che la putrella attraversa e che Giuliano Briganti, quando l’opera venne presentata al Museo di Capodimonte, mise in relazione con la finestra che si apre sulla spalliera marmorea del trono nella pala pesarese di Giovanni Bellini. Nel dipinto, scriveva lo studioso, la finestra si apre sul paesaggio retrostante e attraverso di essa passano le linee di fuga della rigorosa prospettiva. Anche nell’opera di Mattiacci si alternano dinamiche diverse: una finestra inquadra la putrella ma essa sconfina verso il vuoto, il magnete la àncora ma al tempo stesso la solleva da terra dandole la libertà di segnare nello spazio innumerevoli direzioni.

Opere più recenti mostrano le traiettorie degli astri segnate nel ferro. È suggestivo arrivare dal basso, salendo la scala che immette nel giardino del Forte, e vederne proiettate le sagome contro quel cielo dal quale l’artista ha tratto ispirazione. I percorsi tracciati in questi lavori sono le orbite lungo le quali astri e pianeti si muovono garantendo così la loro pacifica convivenza nello spazio. Disco, invece, tra le opere più recenti della mostra fiorentina, alzato sulla parete fino quasi al soffitto, suggerisce un percorso solitario, fuori da ogni rotta, rischioso.