Quali le ricadute della guerra – nel breve, nel medio e nel lunghissimo termine – sul corpo e sull’anima di chi se la vede arrivare addosso. Ma anche nella mente e nei tessuti reconditi di coloro che la progettano la ordinano la demandano la fabbricano la seminano. In questi giorni di fine maggio 2016, mentre, in 71 anni, Barack Obama sarà solo il primo presidente degli Stati uniti a recarsi a Hiroshima, e mentre, non solo per il suo Paese, ma per tutto il pianeta, si apre un indotto enorme di riflessione (penso a questo proposito a La scomparsa di Majorana di Sciascia, geniale connubio interpretativo di scienza cronaca e filosofia, nonché della sorte che spetta alle Cassandre della Storia, premonitrici delle scelte umane rovinose), un documentario italiano sa offrirci spazi vastissimi di meditazione in merito alla questione della responsabilità, dell’etica e della nostra autocoscienza evolutiva. È Il successore di Mattia Epifani, che sarà in concorso a Bellaria Film Festival – dal 26 al 29 maggio la 34ª edizione -, insieme ad altre 17 opere proposte da Italia Doc e Casa Rossa Art Doc, storiche sezioni della rassegna ora guidata da Simone Bruscia (tra questi saranno proiettati S is for Stanley di Alex Infascelli, L’ombelico magico di Laura Cini, Showbiz di Luca Ferrari).
Anche in questo caso, con il lavoro potente di Epifani, abbiamo l’opportunità di interrogarci sugli effetti della guerra, fuori da quella congerie di stereotipi, che normalmente impedisce al cervello di aprirsi sull’abisso dell’argomento. Certo, il regista ha avuto la chance sublime (e ha saputo coglierla), di un protagonista che ha coraggiosamente messo a disposizione la propria storia personale, col suo carico di ombre, raramente comprese e svelate con tanta lucidità. Voce e corpo narrante del film è infatti Vito Alfieri Fontana, un ingegnere elettronico che dopo aver trascorso circa 20 anni a progettare mine antiuomo e anticarro per l’azienda di famiglia (la pugliese Tecnovar, produttrice di circa 5 milioni di ordigni secondo gli standard Nato), comincia a percepire crepe sempre più deflagranti nell’orizzonte delle sue azioni. Un colpo indescrivibile il dialogo col figlio di 8 anni, cui si ritrova a spiegare il suo lavoro, mentre riceve scatole anonime con una scarpa sola, tra l’emergere della coscienza e l’ossessivo calcolare le morti probabili causate, la lotta strenua con l’altro sé, fino alla decisione di interrompere la perniciosa staffetta patrilineare («dimenticate i padri», «uccelli neri … coprono il loro cuore», scriveva Quasimodo subito dopo la seconda mondiale), il viluppo di militarismo e capitalismo, fino alla chiusura della fabbrica, fino a trascorrere 12 anni a Sarajevo e in Kosovo come bonificatore di terreni minati, fino a diventare amico di un uomo che facendo questo lavoro inenarrabile aveva perso una gamba. Così e ancora, in una Sarajevo per sempre post, tra agghiaccianti spot per vendere le mine, grumi dostoevskijani incancellabili e scie sul mare e sulla neve.