Da non credere. Matteo Guarnaccia era nato a Milano il 19 dicembre 1954. Da non credere perché quindicenne già si ritrova in Olanda, Amsterdam, città che per noi ragazzi era come se fosse un altro pianeta in termini di libertà. Da lì erano passati i Provos con le loro bici bianche e il loro sguardo non riconciliato. E lì arriva quel ragazzino «capellone», in un cesso legge una scritta Insekten Sekte, gli piace (in realtà era il nome di una band musicale) e la fa sua, meglio chiama così la sua rivista psichedelica. Allora funzionava così, tu facevi testi e disegni, poi in eliografia, tutto virato sul blu, facevi le copie. E lì comincia il suo lungo e fertile viaggio attraverso le culture alternative, le analisi di costume, i disegni, la grafica, la moda, la musica, il tutto filtrato da un approccio straordinariamente lucido e attento verso chi non è allineato sulle convenzioni dominanti. Si possono dire molte cose di quegli anni, vivaci e dirompenti sotto molti punti di vista, affascinanti anche, ma non sempre facili. Anzi. Avere i capelli leggermente più lunghi significava essere sottoposti a infinite microangherie che talvolta diventavano qualcosa di peggio. Vestirsi con colori sgargianti rispetto al grigiore dilagante era considerato non tanto trasgressivo quanto prossimo all’essere criminale. Il perbenismo portava giornalisti, giudici e semplici benpensanti a ragionamenti contraddittori: se porti i capelli lunghi e ti vesti così non si capisce se sei uomo o donna.

Salvo subito dopo accusare di violenze sessuali, adescamenti e stupri nei confronti delle ragazzine cadute nella trappola. Matteo ha attraversato tutto questo periodo sia vivendolo che documentandolo e raccontandolo attraverso disegni e libri, un’infinità. E faceva risalire le origini dei vari movimenti giovanili esplosi negli anni ’60 a periodi molto più remoti, il surrealismo degli anni ’20 e gli antesignani poeti maledetti. Sempre armato, di curiosità, Matteo ha avuto occhi di riguardo e attenzione verso tutto quello che si trovava in posizione scomoda rispetto ai poteri costituiti, ai luoghi comuni, ai pregiudizi. Il suo insegnamento è una lezione di libertà che va molto oltre l’opzione politica, investe la filosofia e la vita stessa. Per questo ci manca, molto, e l’annuncio della sua scomparsa ci lascia tutti più tristi come quando viene a mancare un compagno di viaggio, ma anche orfani perché sarà impossibile trovare qualcun altro capace di avere il suo sguardo pervaso di cultura psichedelica, molto ironico, spesso geniale, sempre alternativo.

Antonello Catacchio

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Hippies, ultima tribù di Matteo Guarnaccia
(da Hippy Revolution, 2017)
Non è possibile capire la radicalità del movimento hippy se non lo si collega alla coeva guerra condotta dagli Stati Uniti contro un popolo asiatico, peraltro ignoto alla maggioranza degli americani. Il Paese più ricco e potente del pianeta, per «salvare dal comunismo» una nazione di contadini scalzi, invia rozzi cowboys hi-tech a scontrarsi contro una guerriglia motivata e sostenuta dal popolo. Nel 1961 muore il primo americano, uno dei consiglieri militari inviati dal presidente Kennedy.

Nel 1965 Johnson spedisce centomila marines, iniziando un’escalation militare che si concluderà dieci anni dopo con una fuga ingloriosa, un Paese devastato, un milione di vittime vietnamite e cinquantamila americane. È la prima guerra persa non sui campi di battaglia ma sugli schermi televisivi, dove il conflitto, servito quotidianamente dai notiziari della sera alle famiglie sedute a tavola, propone le immagini insostenibili di vite umane fatte a pezzi, di soldati smarriti, di donne e vecchi terrorizzati, di bonzi che si danno fuoco per protesta. Il napalm non corrode solo le carni dei bambini ma anche il sogno americano: la percezione del disastro si deposita nella psiche della nazione, fotogramma dopo fotogramma. L’età media dei soldati americani spediti a combattere a diecimila chilometri da casa è di diciannove anni. I giovani che stanno riscoprendo la cultura amerindia, dopo anni di menzogne, non possono fare a meno di riscontrare sinistre analogie tra la conquista del West e la guerra in corso. I marines, come le giacche blu di Custer, stanno sterminando gli indiani-vietnamiti. Per ragazzi pacifisti e non violenti il conflitto è una dimostrazione palese della volgare insensatezza del potere, ed è l’elemento decisivo che li spinge a rifiutare il contratto sociale, in un’atmosfera elettrica illuminata dai bagliori delle esplosioni nella giungla, dai lampi psichedelici e dalle fiamme delle cartoline precetto, incendiate pubblicamente davanti agli uffici di reclutamento di tutta l’America.

Nella loro ricerca di uno stile di vita semplice, spirituale e in armonia con la natura, gli hippies trovano un alleato perfetto nella cultura nativa americana. Non è una scelta scontata né facile, in un periodo storico in cui gli indiani rappresentano ancora un argomento tabù e persino il movimento per i diritti civili, attivo in quegli anni, non li considera – a differenza della minoranza nera – un soggetto degno di particolare attenzione. Invisibili, numericamente esigui, politicamente ininfluenti, condannati dal cinema hollywoodiano a interpretare un cliché logoro, vivono un’esistenza miserabile in luoghi desolati e periferici della nazione.

La conquista del West (con il suo corollario di pulizia etnica e genocidio) nell’immaginario popolare viene vissuta come la vittoria di una civiltà superiore contro un mondo selvaggio e destinato a soccombere.
È davvero singolare che dei giovani cresciuti nel mito del progresso inarrestabile, coccolati da un sistema consumista, si sentano attratti da quello stesso patrimonio culturale che i loro antenati si erano premurati di spazzare via senza tante cerimonie. Non si tratta tanto di una buffa carnevalata, come infilarsi penne nei capelli, indossare gilet sfrangiati o vivere in tende masticando peyote, quanto della rivalutazione di un modello in grado di offrire risposte a chi si sta accorgendo – in anticipo sui tempi – del pericolo di una crescita illimitata basata sullo sfruttamento sfrenato delle risorse naturali. Uno degli elementi più attraenti per ragazzi cresciuti in contesti anaffettivi è la struttura della tribù, grande famiglia allargata e senza gerarchie.

Il loro aiuto in un momento chiave della storia della minoranza viene apprezzato dai diretti interessati, tanto da far dire a un capo shoshone, Rolling Thunder, che «gli hippies sono la reincarnazione degli indiani caduti in battaglia, sono gli spiriti dei guerrieri ritornati a reclamare la loro terra».

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Stefano Caratene, , foglie d’erba e visioni psichedeliche di Matteo Guarnaccia
(da Alias, 5 ottobre 2019)
Stefano Caratene è uno degli unsung heroes di quell’esaltante stagione, tra gli anni Sessanta e Settanta, in cui era di rigore, per le menti più avventurose, affrontare – a piedi scalzi e con i capelli scarmigliati- la deriva psicogeografica. Era il momento perfetto: tutto il mondo appariva fresco di creazione e bastava una scatola di pastelli per misurarlo e un album da disegno per portarselo appresso, arrotolato nel sacco a pelo.
La galassia di quaderni macchiati e di sketchbook spiegazzati, fitti come una foresta pluviale di annotazioni e disegni, che ruotava intorno quelle esplorazioni spericolate, è uno degli aspetti meno noti di un periodo che, per altri versi, è stato ossessivamente scandagliato. Sto parlando di minuscoli tesori artistici – in gran parte svaniti con i loro compilatori- che hanno deliziato gli adepti di quella confraternita nomade, troppo folle e non etichettabile per interessare galleristi e critici, troppo fragile e straripante di vita vera per venire cooptata dal mercato dell’intrattenimento. Tra le carte che allora mi capitarono tra le mani e che oggi ricordo con un brivido, ci sono quelli del viaggiatore «piccino» ticinese Franco Beltrametti, del poeta romano Aldo Piromalli o di «artisti per caso» come il milanese Luciano Pradella e il genovese Valerio Diotto, tutti nomi operanti in quegli anni a quota periscopica nel circuito underground. E poi naturalmente c’è il romano Stefano Caratene, un assiduo frequentatore di terrain vague brulicanti di forme di vita paradossali, situati in un ipotetico incrocio tra Shangrillà, Santa Maria in Trastevere e Hiroshima.
Territori parzialmente mappati dai pennelli radioattivi e gommosi di Ensor, Dalì o Savino- tutte esperienze ben assimilate nella sua produzione artistica. Caratene prende avidamente nota delle sue visioni, con una sensibilità da teppista incastonatore di pietre, abituato a convertire i tavolini dei bar, i gradini delle piazze e le terrazze di qualche alberghetto decrepito incrociato lungo la hippie trail, in laboratori alchemici. In un disegno a penna BIC, la sua tecnica preferita, perfetta per lavorare veloce e senza ripensamenti, si ritrae come un pacioso oste di una trattoria romana surriscaldata, dove le pentole sui fornelli sono una versione ruspante di athanor, da cui schizzano irruente entità demoniache domestiche e le pietanze, testarde, sfidano la legge suprema della natura morta, non rinunciando a passeggiare, volare, trasmigrare.
Sui suoi taccuini (alcuni dei quali sono diventati deliziose autoproduzioni editoriali, come «Karma d’Oppio» del 1973, redatto durante un viaggio in Afghanistan) tutte le forme di vita sono impegnate in estenuanti accoppiamenti che nemmeno i viaggi astrali più arditi riescono a rallentare. Nel complesso i suoi disegni hanno un certo sentore di spiritismo, paiono realizzati sotto dettatura medianica. Sprofondano nella psicosi ipnagogica per poi trovare un’inaspettata via d’uscita in una sfrenata comicità dionisiaca da marginalia medievale.

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Baciare il cielo, un gioco da sciamani di Massimo De Feo
(Estratto dall’intervista a Matteo Guarnaccia su Alias del 12 maggio 2014)
In apertura del tuo libro «Sciamani-Istruzioni per l’uso» (shake edizioni ) c’è una foto di un bambino vestito da indiano d’ America, una tua vecchia foto di un carnevale?
Lo sciamanesimo lo conosciamo bene, perché da bambini tutti siamo stati in qualche modo sciamani. Il bambino è un essere capace di collegarsi con le forze sottili dell’esistenza, e usa il gioco come ponte per entrare in contatto con diverse modalità percettive. Il bambino sa diventare altro, trasformarsi come persona e come animale, parla con esseri invisibili, oggetti inanimati, cerca un cambio di coscienza attraverso formule estatiche minori, come il girotondo e le vertigini; trattiene il respiro, ripete frasi senza senso, filastrocche, tutti elementi direttamente collegati con la tecnologia dell’estasi degli sciamani, persone che hanno saputo mantenere e sviluppare questa capacità incredibile al servizio della propria evoluzione personale e del benessere comune. In quella foto, avrò avuto più o meno 3 anni, si sottolinea la classica scelta esistenziale tra il fare il cow boy o l’indiano. Io ovviamente avevo optato per il secondo, una premonizione per i miei interessi futuri. Mi ricordo che, anche in quella periferia completamente devastata di Milano, che fa da sfondo alla foto, mettersi le penne in testa, avere le frange nei pantaloni e un arco squinternato in mano, bastava a farmi uscire dalla realtà consensuale dei grandi e vivere per una estensione di tempo, a mia scelta, all’interno di un altro mondo. È esattamente questo il punto di partenza per il famoso volo magico, che i più avventurosi della mia generazione hanno affrontato.

Io avevo un cavallo a dondolo con cui parlavo, e per me la cosa era assolutamente reale.

Io avevo dei soldatini di plastica di indiani con cui comunicavo e che mi accompagnavano nelle mie avventure. Per me quei piccoli indiani erano degli aiutanti magici, un approccio verso un mondo fatato.

Nel tuo libro un capitolo fa la Hit Parade sciamanica di brani musicali, film, libri, simboli, animali guida etc…
Nella mia storia personale la prima canzone sciamanica per eccellenza è stata Purple Haze di Jimi Hendrix: è uno dei primissimi brani in cui l’ effetto sonico fuso con le parole, è riuscito a rendermi cosciente del fatto di avere nel mio kit di umano delle antenne percettive che non avevo mai usato. L’ idea hendrixiana di «fermarsi per baciare il cielo» è un meraviglioso sentimento poetico. Nel libro c’è una sezione dedicata ai canti sciamanici, tutti indistintamente, da qualsiasi parte del mondo provengano, colmi di delicata e terrifica poesia. Nella hit parade musicale ho inserito anche Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, un brano che descrive perfettamente l’esperienza di uscire dal corpo fisico: un cambio di coscienza vissuto con gioia. È indicativo che ci troviamo in Italia, non in Messico o sull’Himalaya, eppure siamo di fronte alla stessa emozione, all’idea che possiamo uscire dalla nostra condizione di bipedi ancorati alla forza di gravità e, in qualche modo, spiccare il volo …