«In questi dieci mesi abbiamo assistito a una serie di fallimenti: non abbiamo fatto la legge elettorale, è saltata la revisione costituzionale via art. 138. Siamo pieni di ministri delle riforme, seminari interessantissimi, risultati zero o quasi». Maniche di camicia, repliche in diretta a twitter, battute. La prima direzione dell’era Renzi è già pieno Leopoldastyle. Il segretario apre a modo suo i lavori, parlando a tutti gli utenti collegati – siamo in diretta streaming – e enunciando gli «avvisi parrocchiali», ordine del giorno, si dovrebbe propriamente dire, ma farebbe «grigio burocrate». Agenda Renzi dei prossimi quattro mesi, quelli delle amministrative, e delle europee, almeno: legge elettorale, che però Renzi rimanda a una nuova direzione del Pd, lunedì prossimo; jobs act, che però dettaglierà più avanti; riforma del senato, e anche su questo si approfondirà poi; riforma del Titolo V. Ma non ce n’è, il punto è il governo. E qui sì che arriva un «avviso». E non è per niente parrocchiale.

Renzi deve convincere dem, elettori, naviganti e follower di una cosa in cui neanche la maggior parte dei suoi stretti collaboratori crede: che non vuole tirare giù Letta a mezzo riforma della legge elettorale. Ci prova, anche troppo: «La prospettiva personale non è giocare un giochino tutto interno agli intrighi di palazzo per andare a votare e prendere il posto di Enrico. Il governo se fa bene si merita un bravo, se no si critica e non c’è un disegno segreto, le critiche non sono per fare le scarpe ma per dare una mano».Giura, sottolineando: non approfitterà di un governo al «minimo storico» di gradimento mentre lui è al «massimo».

Ma di fatto la sua relazione cannoneggia Letta. Tanto che il ministro Delrio interviene per parlare di Titolo V e mette le mani avanti: «Non sta a me difendere il governo». Renzi non manderà i suoi più vicini a rimpiazzare i ministri e i vicedimessi, come chiede Stefano Fassina, né a fare «il Letta bis» che chiede Gianni Cuperlo, lo sconfitto delle primarie. Paradossi democratici, la minoranza di sinistra difende il governo Letta-Alfano. Renzi tiene invece le distanze: «Il governo non ci chieda un rimpastino, uno dei loro al posto di uno dei nostri perché allora un governo, con il Pd all’80 per cento sarebbe da rimpastare ab ovo. Se ne occupi Letta». Letta, da Palazzo Chigi, giura di essere «fiducioso», ha «un giudizio diverso sui nove mesi di lavoro» ma è «d’accordo sulla necessità di un nuovo inizio».
Renzi ha la stragrande maggioranza, quindi può tirare dritto.

Ma non convince la sinistra Pd o, meglio, quella galassia variegata che si sta sfaldando all’opposizione interna. E infatti sono molti a sfilare al microfono, ciascuno con la sua sfumatura di dissenso. Cuperlo: «Non è dato in natura un governo che non trovi nel primo partito della maggioranza un sostegno convinto». Fassina, che Renzi ha apostrofato nella relazione («Non ci si dimette per un ’chi’»), sfida: «Se non ci sono le condizioni per un governo di svolta, allora andiamo al voto». Matteo Orfini, area turchi: «Sembriamo non il primo partito di maggioranza, ma di opposizione. L’ambiguità la dobbiamo sciogliere e lo deve fare prima di tutto il segretario, cercando di fare in modo che l’azione del Pd serva effettivamente a chiudere questa discussione e far funzionare il governo. Dobbiamo ridiscutere la linea politica». Alla fine gli astenuti sulla relazione sono 35, quasi tutta l’opposizione. E forse non andrà meglio alla direzione di lunedì, sulla legge elettorale. Roberto Speranza, capogruppo del Pd, rivendica un ruolo ai gruppi parlamentari (quelli eletti in era bersaniana) per difendere «l’unità del Pd». Renzi replica che la sede della decisione è la direzione, dove la maggioranza renziana è bulgara, «poi chi si vorrà mettere fuori, libero di farlo». Altro avviso non parrocchiale.

Come la controreplica finale di Renzi a Letta: c’è una parte positiva nelle sue parole, dice. Quella negativa – il dissenso sul giudizio sul governo – «la prendiamo come i messaggi di Krusciov a Kennedy sulla crisi dei missili a Cuba». Come dire: siamo in piena guerra fredda, lì a Palazzo Chigi ci sono i sovietici, qui nel Pd gli americani.