Conta più la firma o la lettera? La domanda, dopo la decisione di Mattarella di accompagnare l’emanazione del decreto “sicurezza” con una sottolineatura indirizzata al capo del governo, è giustificata dal fatto che questa volta il richiamo del presidente della Repubblica riguarda il complesso della legge e il suo rapporto con la Costituzione.

Già in passato questo capo dello stato aveva accompagnato la promulgazione di leggi con una lettera al presidente del Consiglio, secondo una prassi che data dalla presidenza di Ciampi e che si è prepotentemente affermata nel novennato di Napolitano. Ma i rilievi di Mattarella si erano concentrati su aspetti particolari della legge promulgata (la confisca preventiva nel codice antimafia) o raccomandazioni sul contenuto delle norme attuative (a tutela della segretezza delle indagini nel caso della legge sul whistleblowing). Stavolta il richiamo è, complessivamente, agli «obblighi costituzionali e internazionali dello stato» che «restano fermi». Secondo il costituzionalista Gaetano Azzariti, il fatto che le osservazioni riguardino «non difetti della normativa o un invito a successivi interventi di completamento, bensì vere violazioni, o timori di violazioni, di principi costituzionali fondamentali» finisce con il somigliare «più a un’espressione di impotenza o debolezza che non all’esercizio delle prerogative presidenziali di indirizzo». La lettera suona come una rinuncia, quindi, visto che il primo vaglio di costituzionalità – per quanto limitato a illegittimità manifeste – spetta proprio al capo dello stato. Per questa via, secondo Azzariti, «c’è il rischio che la forza delle prerogative presidenziali finisca per indebolirsi».

Se infatti è vero il teorema che nella lettera di Mattarella deve leggersi soprattutto un messaggio al parlamento che si appresta a convertire il decreto, il corollario è che adesso – avendo firmato il testo malgrado le preoccupazioni di costituzionalità – il presidente non potrà fare altro che promulgare la legge di conversione, qualsiasi cosa facciano o non facciano le camere.
«Un messaggio del genere – è per esempio l’opinione dell’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick – è importante non solo per quello che il governo ha già fatto, ma soprattutto per quello che il parlamento dovrà fare adesso». Flick vuole ricordare che «c’è differenza tra la valutazione che fa il capo dello Stato in sede di promulgazione o emanazione e l’eventuale giudizio di legittimità della Corte costituzionale. Al presidente spetta un controllo di carattere generale e la sua decisione si basa anche su altri elementi».

Una diversa interpretazione della lettera, infatti, è che questa sia non tanto un messaggio al parlamento, quanto alla Corte costituzionale che assai prevedibilmente dovrà occuparsi del decreto. Un messaggio pubblico, non mancando certo al Quirinale i canali di dialogo riservato con la Consulta. Questo tipo di lettura è stata proposta anche in passato, ad esempio in occasione di un precedente decreto “sicurezza”, anche questo voluto da un ministro dell’interno leghista – Maroni, nel 2009 – e anche questo firmato (la legge di conversione) con l’accompagnamento di una lettera – solo che la missiva di Napolitano era di cinque pagine, contro le cinque righe di ieri. Quel decreto introdusse il reato di immigrazione clandestina, assai discusso e poi effettivamente portato davanti ai giudici delle leggi, eppure ancora saldo nel nostro ordinamento.

C’è poi la possibilità che la lettera di Mattarella si rivolga proprio al presidente Conte, al quale è indirizzata. Il richiamo all’articolo 10 della Costituzione che garantisce allo straniero diritti «in conformità alle norme e ai trattati internazionali», compreso quello che vieta l’espulsione dei rifugiati in assenza di condanna definitiva, sembra violato dall’articolo (10 anche questo) del decreto. L’ultima formulazione di questa norma risente delle successive mediazioni e può prestarsi a interpretazioni più o meno rigide; Mattarella probabilmente raccomanda cautela nell’applicazione. Salvini però ha già risposto a modo suo, annunciando il pugno duro. «Voglio sentirmi rassicurato dal fatto che il ministro dichiari che rispetterà tutti gli articoli della Costituzione – è la conclusione di Flick – fermo restando che rispettarli non vuol dire “essere fessi”»