È un’uscita estemporanea, non studiata, non calcolata e tuttavia assolutamente sincera. Pochissime parole dette ai bambini di una scuola primaria per sintetizzare quel che il capo dello Stato ha ripetuto innumerevoli volte nelle ultime settimane ad altrettanti interlocutori postulanti: «Sono vecchio. Tra 8 mesi potrò riposarmi». Sulla rielezione, anche solo per dare a Draghi il tempo di portare a compimento la legislatura e poi succedergli, il presidente non cambia idea. Considera l’ipotesi fuori discussione.

Nel Palazzo la posizione di Sergio Mattarella era già nota a tutti. Però riaffermarla in pubblico rende un ripensamento nel quale molti ancora sperano ancora più improbabile. Non impossibile. In politica, e in quella italiana più che altrove, nessuna porta è mai tanto blindata da non potersi aprire per magia se proprio necessario. Ma è un’ipotesi remota perché nella determinazione del presidente a non voler restare sul Colle un giorno più del dovuto confluiscono due elementi diversi. Il primo, più facilmente superabile, è di carattere personale. Mattarella aveva accettato l’alto incarico senza averlo cercato né desiderato, caso più unico che raro, e con qualche esitazione confessata proprio ieri: «Quando mi hanno eletto mi sono preoccupato perché sapeva quanto il compito era impegnativo».

Superare le resistenze personali in nome del bene pubblico non sarebbe però di per sé uno scoglio insormontabile. Ma la resistenza di Mattarella è dettata anche da considerazioni di ordine costituzionale e lì la faccenda diventa molto più spinosa. Il presidente ritiene che la rielezione sia un errore in contrasto con lo spirito, se non con la lettera, della Costituzione. La sua preoccupazione è notevolmente rafforzata dal fatto che si tratterebbe della seconda forzatura consecutiva, dopo il secondo giro di Giorgio Napolitano. Qualcosa di molto vicino a un’abitudine. Senza la disponibilità di Mattarella, però, la partita del Colle diventa più difficile e rischiosa.

È significativo che ieri Salvini e Letta abbiano commentato le parole del presidente con frasi quasi identiche. «Febbraio è lontano ma se Draghi ritenesse di proporsi avrebbe il nostro convinto sostegno», giura il leghista.«Gennaio è talmente lontano che cosa succederà non so dirlo in questo momento. Sarà un’altra partita e la affronteremo come sempre con lo spirito migliore», promette l’uomo del Nazareno. Il punto di distinzione tra i due è eloquente. Salvini, che vuole Draghi sul Colle per spalancare le porte al voto politico, candida di fatto e senza perifrasi il premier. Letta, che invece le elezioni nel 2022 proprio non le vuole e ritiene di dover conquistare quanto più tempo possibile per costruire un’alleanza con i 5S oggi posticcia, glissa. L’ostacolo principale per l’ascesa al Colle di Draghi non sono i calcoli contrapposti di Letta e di Salvini, che vuole le elezioni il prima possibile per evitare di rosolarsi troppo al governo sino a dover cedere lo scettro a sorella Giorgia.

Sono quelli di ancor più piccolo cabotaggio dei parlamentari, che non hanno alcuna intenzione di perdere quello che per moltissimi sarà l’ultimo anno in Parlamento e sanno che l’elezione di Draghi renderebbe lo scioglimento delle camere inevitabile. E sono le incognite che gravano sul Pnrr. Se tutto andasse nel migliore dei modi, con le riforme propedeutiche già varate, i progetti incardinati, gli appalti assegnati, l’attuale premier potrebbe anche salire di rango per poi vegliare dal Colle su un Piano da lui stesso impostato. Ma che tutto vada alla perfezione e nei tempi dati non è affatto detto e in quel caso Draghi, tanto più con un Parlamento deciso a resistere, potrebbe dover rinunciare.

Solo che di altri candidati in grado di evitare l’apertura di un torneo diabolico, una di quelle guerre di tutti contro tutti che sarebbe con questa bizzarra maggioranza non politica esiziale, non se ne trovano facilmente. Marta Cartabia, che ha il vantaggio di essere donna, potrebbe essere una via d’uscita. Potrebbe avere qualche possibilità Giuliano Amato, che tra qualche mese sarà quasi certamente presidente della Corte costituzionale, ottimo trampolino di lancio, e sarebbe ben accolto almeno da Forza Italia. Ma l’ipotesi più probabile, senza un accordo preventivo come quello che portò nel 1985 all’elezione di Cossiga alla prima votazione, è lo scatenarsi di una battaglia senza esclusione di colpi tra destra e sinistra, dunque in buona parte interna alla maggioranza, per la conquista del Quirinale.