Se anziché valutare il discorso del nuovo Presidente della Repubblica fossimo qui a giudicare quello del segretario del partito in cui militiamo, o di un primo ministro da sostenere, avrei voluto molto di più. Avrei richiesto che il sacrosanto dolore espresso per il bambino ebreo ucciso a Roma nell’odioso attacco alla Sinagoga fosse accompagnato non solo, come pure ha fatto Sergio Mattarella, da un invito al rispetto di tutte le religioni, dunque anche di quella musulmana, ma da un richiamo esplicito ai bambini palestinesi massacrati quasi quotidianamente a Gaza.

Avrei anche voluto che criticasse apertamente gli interventi militari italiani in giro per il mondo, e non si fosse limitato a citare, sia pure con fermezza, il sempre dimenticato articolo della Costituzione che bandisce la guerra come strumento di soluzione dei conflitti internazionali. Anche se ho apprezzato l’invito, questo esplicito, a puntare sulla cooperazione e il sostegno alla costruzione di società democratiche. E però stiamo parlando del primo discorso del nuovo Capo dello Stato, che ha istituzionalmente un ruolo circoscritto, ed è bene che sia così.

Non può, e non deve, intervenire direttamente nelle scelte politiche del paese che spettano al Parlamento e ai governi che questo esprime. Del resto la scelta di questa carica è operata da un arco di forze più ampio di quello di una semplice maggioranza e rappresenta comunque una mediazione.

Se tengo a mente tutte queste circostanze debbo dire che io sono abbastanza contenta delle parole del presidente Mattarella.

Nei limiti della sua funzione ha infatti mandato un messaggio chiaro su alcune questioni di fondo. Ha innanzitutto insistito sin dall’inizio del suo discorso sul grande malessere della società italiana e sulla lacerazione del tessuto sociale prodotte da ingiustizia, disoccupazione, emarginazione, solitudine e angosce.

Non ne ha parlato genericamente, ma per esprimere un giudizio critico, sia pure, come non poteva che essere, indiretto, sulle scelte politiche in atto, richiamando il pericolo che le misure adottate in virtù della crisi economica non abbiano ad intaccare la Costituzione, di cui ha ricordato con enfasi gli articoli più contraddetti dal sistema in cui viviamo: il famoso articolo dove si dice che non basta enunciare i diritti, ma occorre anche rimuovere gli ostacoli che ne impediscono l’attuazione.

Prima di tutto l’obbiettivo dell’eguaglianza, questa parola diventata quasi illegale nella società capitalistica globalizzata. Come garante della Costituzione, il Presidente ci ha detto una cosa semplice e chiara: garantirla vuol dire applicarla. Senza retorica.

Sulla elezione di Mattarella, una volta avvenuta, tutti hanno cercato di mettere il cappello. E gran parte della stampa ha dato corda agli autoelogi. A cominciare da quello di Renzi. Cui va certo riconosciuta la sua qualità più forte, la rapidità, grazie alla quale ha capito che se tirava ancora un po’ la corda, il suo partito rischiava di frantumarsi. E così, per una volta, è stato a sentire quello che suggeriva la sua opposizione interna. La scelta di questo Presidente della Repubblica penso sia una vittoria di Bersani, della sinistra interna al Pd, di Sel. Di cui il nostro primo ministro ha alla fine dovuto tener conto, decidendo di correre il rischio di una incrinatura del patto del Nazareno, piuttosto che quello, più pericoloso, di una troppo grave ferita nel suo partito. Purtroppo non credo che questo comporti un qualche mutamento di rotta del governo sulle sostanziali questioni che sono sul tappeto, ma è bene sapere che lottare, o almeno resistere, qualche volta serve.

Che Mattarella non sia, come dicono soavemente gli inglesi, la “cup of tea” di Renzi si è già visto: basti pensare a quanto ha detto nel suo discorso inaugurale: non bastano generiche esortazioni a guardare al futuro per cambiare. Né si può governare a botte di voti di fiducia ignorando la dialettica parlamentare. Debbo anche dire che ho apprezzato il fatto che il nuovo presidente non abbia mai detto la parla “riforme”, che copre ormai qualunque controriforma.

L’altra straordinaria menzogna sbandierata in questi giorni è quella sulla Dc. E’ vero che Luigi Pintor, dopo aver sconsolatamente ripetuto «moriremo democristiani», quando arrivò Berlusconi finì per aggiungere, in un suo editoriale, la parola «magari». Perché al peggio non c’è mai fine. Ma usare Mattarella per riabilitare il mezzo secolo di governi della balena bianca è un altro paio di maniche.

L’altro giorno, il 9 gennaio, ho ascoltato alla radio una trasmissione in cui si raccontava quanto era accaduto, 65 anni prima, a Modena: la polizia di Scelba aveva sparato ad altezza d’uomo contro il pacifico picchetto operaio che presidiava l’acciaieria Orsi per protestare contro massicci licenziamenti. Ne uccise 7 e ne ferì gravemente decine. Mi sono domandata quanti giovani sapessero di quell’eccidio, e dei tanti che nelle campagne e nelle città hanno segnato per decenni l’esercizio del potere democristiano. Oltre alle discriminazioni di operai e intellettuali, alla censura, all’intreccio clientelare fra partito e stato, all’abnorme debito pubblico, quello con cui tutt’ora facciamo i conti.

L’on.Pomicino ha colto l’occasione dell’elezione del nuovo presidente della repubblica per commentare soddisfatto: nella prima Repubblica c’erano due grandi partiti, il Pci e la Dc, il primo ha sbagliato sempre, la seconda ha fatto sempre le cose giuste. Per fortuna Mattarella è stato molte e essenziali volte dalla “parte del torto”. A cominciare dal varo della Legge Mammì, che ha permesso a Berlusconi di arrivare dove è arrivato.Con tutte le sue ben note reticenze e ambiguità la sinistra Dc non può esser confusa con le peggiori malefatte di quel partito. Altro che glorificazione della prima Repubblica!