L’assemblea dei “grandi elettori” sabato pomeriggio ha (ri)eletto, convinta e grata, Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Invece, dal racconto sui principali quotidiani, sembra che abbiamo confermato, con pari determinazione, Sergio Mattarella al Quirinale e Mario Draghi a Palazzo Chigi.

Non è cosi. È chiaro il fine strumentale di tali letture: si coltiva il “bis” anche per la Presidenza del Consiglio nella prossima legislatura.

Con realismo dobbiamo riconoscere che, al bivio storico al quale è l’Unione europea e date le condizioni della nostra finanza pubblica, Draghi è una risorsa per l’Italia, preziosa nel quadro della classe dirigente in prima linea. Tuttavia, la nostra democrazia costituzionale è irrinunciabile e i fatti della triste settimana passata possono aiutare a rianimarla.

Certo, dalle giornate quirinalizie, il Premier esce ingigantito nei confronti di sedicenti kingmaker e leader di carta e di fronte a partiti e schieramenti in pezzi. I consigli dei ministri avranno interferenze “esterne” meno incisive. Ma il dato politico fondamentale è l’avvio, da sabato, del movimento verso un riequilibrio costituzionalmente corretto del rapporto tra Presidente del Consiglio e Parlamento.

Le cause sono due, intrecciate.

La prima, soggettiva, è dovuta al ridimensionamento politico di Draghi per la sua insistenza istituzionalmente scomposta per arrivare al Colle: da ultimo, la convocazione a Palazzo Chigi dei segretari di partito, a urne aperte a Montecitorio, ha spostato su Mattarella anche chi ancora puntava sull’ex presidente della Bce.

La seconda ragione, sistemica, è il risveglio dei singoli parlamentari di fronte all’impasse e all’imbarazzante show di Matteo Salvini, a volte sostenuto da sponde incaute dalle nostre parti. In questo passaggio, il Parlamento, relegato da tanti anni in una sempre più angusta marginalità, ha orientato le delegazioni trattanti dei partiti e risolto un puzzle, il più difficile della storia della Repubblica italiana, in primis per l’assenza di una maggioranza politica.

Stavolta, “la centralità del Parlamento” non è stata un irritante ritornello. Il Covid ha fatto spalancare i portali del Transatlantico. La fredda volontà popolare è potuta entrare. A partire da Stefano Ceccanti, con tante colleghe e colleghi del Pd, del M5S e anche dell’altro campo, l’abbiamo interpretata. Come formichine operaie, per 4 giorni abbiamo accumulato la soluzione: 126, 166, 336, 387 voti per Mattarella e, infine, il traguardo.

Abbiamo esercitato la nostra funzione “in rappresentanza della nazione, senza vincolo di mandato” (Art 64 ). Nel voto di maggiore rilevanza costituzionale, il ruggito dei tanto disprezzati “peones” è stato decisivo. Volevamo evitare il “bis”. Non ci siamo riusciti. Ma non è stato tempo perso: ci siamo riconosciuti al di là degli schieramenti.

Ora, dobbiamo tornare ad esercitare la nostra funzione: per evitare il segno liberista nelle attese “riforme” incluse come conditionality nel Pnrr e per muovere, al riparo del Colle, i primi passi di una ricostruzione istituzionale e politica.

Innanzitutto, per la revisione dei regolamenti di Camera e Senato per connetterli al taglio degli scranni e limitare comportamenti opportunistici di singoli e gruppuscoli. Poi, per una legge elettorale proporzionale, con sbarramento adeguato, e le preferenze. Infine, per una legge sul finanziamento della politica facendo tesoro degli errori passati, ma anche delle classiste distorsioni vigenti.

Il percorso va completato nella prossima legislatura “costituente”: superare il bicameralismo perfetto, divenuto monocameralismo alternato; promuovere la stabilità dell’esecutivo con la “sfiducia costruttiva”; disinnescare l’“autonomia differenziata” e ridare il primato allo Stato, a partire dalla Sanità.

La prossima legislatura è l’ultima chance: senza ristrutturazione della Repubblica parlamentare e senza il risanamento morale, intellettuale e organizzativo di grandi partiti, su identità distintive, una forma di semi-presidenzialismo ben bilanciata sarebbe il “male minore”.