Com’era facile prevedere, non è stato possibile tenere il coperchio sulla pentola ribollente dell’elezione del successore di Mattarella. Sul prologo è calato il sipario il 22 dicembre con la conferenza stampa di Draghi. Ora si avvia la recita, e la domanda è: chi sono i primi attori, chi le comparse?

Il protagonista principale è Draghi. Non perché sia in vantaggio nei sondaggi di opinione, sia il più bravo, o magari piaccia a Confindustria. Piuttosto, ha nelle mani un asso: il paese non può permettersi che torni ad essere un privato cittadino. Se Draghi rimanesse fuori sia dal Quirinale che da palazzo Chigi il prezzo da pagare in Europa e sui mercati potrebbe essere molto alto. Il segnale è venuto dallo spread, al quale le notizie di instabilità politica hanno già fatto rialzare la testa.

Cosa accadrebbe se Draghi, fallito l’obiettivo Quirinale, rifiutasse di farsi cuocere a fuoco lento in una conflittualità permanente, e decidesse di abbandonare? L’annuncio di dimissioni del ministro Cingolani è un segnale significativo. L’arma più potente di Draghi è la minaccia, comunque espressa, di andarsene dopo il voto per il Colle.

Un possibile co-protagonista è Mattarella. È l’unico che può togliere dalle mani di Draghi l’arma dell’abbandono. Basterebbe che mantenesse la carica, sia nella versione di un intero settennato, sia in quella di un mandato a termine imposto nel 2023 dal cambio del corpo elettorale per il taglio dei parlamentari. Se Mattarella si convincesse, la sua decisione da sola congelerebbe la situazione in atto, e renderebbe a Draghi di fatto impossibile l’abbandono. Sarebbero infatti realizzate condizioni di continuità che lo stesso Draghi ha posto. Si aggiunge ora un assist dato dal peggioramento della situazione pandemica, con l’incremento esponenziale dei contagi già in atto.

E gli altri? Comparse. Chi non vuole Draghi sul Colle e ne invoca più o meno convintamente la permanenza a palazzo Chigi non ha il potere di costringere l’interessato a rimanere dov’è. Lascia dunque nelle mani del premier l’arma dell’uscita di scena. Inoltre, sono palesi le debolezze degli schieramenti in campo. Il centrodestra sconta le voglie quirinalizie di Berlusconi, la cui ascesa sarebbe una vera iattura. Come si può pensare a un capo dello stato che una buona metà del paese considererebbe del tutto inidoneo – se non indegno – per la carica? La presidenza della Repubblica ha stabilmente nei sondaggi un gradimento alto in assoluto. Vogliamo arricchire la specialità italiana con la presidenza più disprezzata della storia repubblicana?
È auspicabile che lo stesso Berlusconi – non digiuno di politica – si faccia da parte e si contenti del ruolo di kingmaker, che certo può cercare di ricoprire, Salvini e Meloni permettendo.

Anche Letta vorrebbe essere il kingmaker. Ma il Pd si conferma anche in questa occasione come un assemblaggio di correnti e talvolta di manipoli, che nella specie non mancano di sgomitare. La convocazione di una direzione solo il 13 gennaio, a pochi giorni dal primo voto, potrebbe essere un segnale di debolezza del segretario, volto ad evitare che una colluttazione interna esploda alla luce del sole, e però tale da sminuire il peso contrattuale del partito. Le pulsioni che agitano il composito gruppo dirigente del Pd non sfuggono agli addetti ai lavori, e non solo. Tutti vorrebbero essere kingmaker. Anche M5S, che pure balbetta in questa come in tante altre occasioni.

Ma su quale nome indirizzarsi, e come? Potrebbe essere conclusiva la concentrazione dei voti sin dalle prime battute su Draghi o su Mattarella. In entrambi i casi, se anche fosse mancato l’obiettivo in prima votazione, il seguito probabilmente seguirebbe. Per soluzioni diverse qualunque kingmaker dovrebbe invece trattare con lo stesso Draghi, sulle modalità della scelta e sul nome della persona, chiunque fosse. Diversamente, l’arma dell’abbandono non sarebbe neutralizzata.

Ovviamente, il paese ha ben poco bisogno della rappresentazione teatrale in atto. Oltre alla pandemia, c’è l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, con le speranze, sempre più flebili, di rinnovare l’Italia dalle fondamenta per quanto riguarda l’eguaglianza, i divari territoriali, le infrastrutture, la transizione ecologica, diritti fondamentali come la sanità, l’istruzione, il lavoro. Ci sarebbe occasione per uno spettacolo di prima grandezza. Ovviamente, se il palcoscenico non fosse affidato – con rare eccezioni – a guitti.