Quasi un inciso nel discorso, come fosse un dato ormai acquisito: «A poche settimane dalla conclusione del mio ruolo, delle mie funzioni di presidente della Repubblica» mi fa piacere tornare all’Università la Sapienza, dice il presidente Mattarella. Ma un vero inciso non è. Sono passati pochi giorni da quando l’11 novembre il capo dello Stato aveva lanciato con chiarezza lo stesso messaggio – game over – ma poi aveva dovuto leggere nuove congetture sul suo secondo mandato. Per cui è tornato sull’argomento, passando dalle motivazioni costituzionali, contenute nella precedente citazione di Leone – «ripropose la sollecitazione di introdurre la non rieleggibilità del presidente della Repubblica» – e in quella di inizio anno di Segni «sette anni sono sufficienti a garantire una continuità nell’azione dello stato» – a ragioni più personali.

«Qualche tempo fa uno studente mi ha chiesto come è possibile per chi esercita potere non farsene condizionare», ha ricordato Mattarella ieri inaugurando l’anno accademico. E ha attualizzato la sua risposta di allora: «Vi sono, per fortuna, nelle istituzioni, per coloro che rivestono ruoli primari di carattere istituzionale, diversi strumenti: l’articolazione delle funzioni fra organismi diversi, la temporaneità degli incarichi». L’accento in questo caso va sulla temporaneità: setta anni per il presidente sono più che sufficienti. Il precedente della rielezione di Giorgio Napolitano per un secondo mandato (poi terminato anzitempo per dimissioni) nelle considerazioni di Mattarella non vale a smentire la buona prassi del mandato unico. Casomai a rafforzarla, perché due eccezioni una dopo l’altra somiglierebbero troppo a una regola. Tanto più che il presidente si è venuto convincendo – sulla scorta del pensiero dei citati Segni e Leone – che sarebbe utile introdurre in Costituzione una esplicita non rieleggibilità del capo dello Stato. Cosa che consentirebbe di eliminare quel semestre bianco che può rivelarsi un ostacolo nell’esercizio del mandato, perché priva il Quirinale di uno strumento a volte indispensabile per far ripartire il motore della Repubblica.

Non è sempre stato di questa opinione, Sergio Mattarella. Non lo era nell’agosto del 1998 quando da capogruppo alla camera del partito popolare propose la rielezione per un secondo mandato al Colle di Oscar Luigi Scalfaro. Ma adesso Mattarella è talmente intenzionato a non ascoltare le sirene della rielezione che ha già fatto sapere di aver trovato casa a Roma per quando lascerà il Quirinale. Solo l’ultimo dei segnali, dopo l’accenno alla necessità di «riposarsi», la visita di concedo in Vaticano, il trasferimento del suo consigliere per gli affari giuridici.

Se tutto questo non è bastato, se il presidente è stato costretto ieri a tornare sull’argomento e sulle «poche settimane» che gli mancano, è perché l’eventualità del bis non è del tutto sparita dai ragionamenti nel Palazzo. La soluzione del rebus Quirinale, infatti, appare difficile. E la sola eventualità che alla fine, in qualche modo, si possa trovare la via per convincere Mattarella a ripensarci, avrebbe l’effetto di «rilassare» i grandi elettori e per questa via paradossalmente complicare la soluzione. Il presidente in carica, in altre parole, non vuole correre il rischio che il parlamento possa tornare a guardare a lui dopo una serie di votazioni a vuoto. Pensa evidentemente che i partiti non debbano più eludere la ricerca di un accordo. «È questo il tempo delle responsabilità», ha detto ieri parlando della pandemia, ma sottolineando la necessaria «responsabilità delle istituzioni». Per poi ripetere una volta ancora: game over, la sua partita sta arrivando alla fine.