Appena entrato negli 80 anni, Sergio Mattarella si fa sentire e lancia moniti su più fronti. Il primo è un richiamo formale ed esplicito, una lettera inviata ai presidenti del Consiglio e delle Camere per reclamare «un ricorso più razionale e disciplinato alla decretazione d’urgenza».

Nel mirino c’è la pessima abitudine del Parlamento a riempire i maxidecreti in scadenza di norme che con l’oggetto del decreto hanno in realtà poco a che vedere, trasformandoli in omnibus. Ma c’è anche la tendenza di questo come di tutti i precedenti governi ad abusare della doppietta maxidecreto-voto di fiducia, nonostante il formale richiamo della Corte costituzionale del 2014.
Ci si può domandare perché il presidente abbia deciso di intervenire con tanta solennità, di fatto minacciando il rinvio dei decreti alle Camere solo ora. In realtà Mattarella era già intervenuto in materia altre volte, senza risultato. Probabilmente ha scelto di assumere una posizione più rigida per due motivi diversi. Il primo è che con una maggioranza così ampia e composita la tendenza a sfruttare i decreti per inserire provvedimenti di ogni tipo sta dilagando. Il secondo è che il governo Draghi non è esente dalle critiche sull’abuso dei decreti che valevano per i predecessori.
Mattarella ha anche chiesto di spostare la riunione del plenum del Consiglio superiore della magistratura fissata per il 28 luglio per esprimere un giudizio sulla riforma Cartabia. Giovedì scorso la sesta commissione, con 4 voti contrari e 2 astensioni, si era espressa in modo molto critico e di questo avrebbe dovuto discutere il plenum. Il presidente ha chiesto al vicepresidente Ermini di «posticipare anche solo di pochi giorni affinché il Consiglio dia il proprio parere sul complesso della riforma». Nella stessa direzione si muove anche la ministra Cartabia, che inizialmente non aveva chiesto al Csm alcun parere ma lo ha fatto giovedì, probabilmente in seguito al voto solo sulla prescrizione, chiedendo però di esprimersi su tutti gli emendamenti.

Mattarella non ha alcuna intenzione di farsi costringere nella posizione dell’alfiere o del nemico della prescrizione. Ritiene che la riforma vada giudicata nel complesso e non segmentata in questo modo. Sul suo sostegno non ci sono dubbi, ma certo non gli sfugge che il testo potrebbe essere migliorata, che alcune critiche non sono infondate e che sarebbe auspicabile un clima opposto a quello reale, tale cioè da permettere un lavoro costruttivo. È un po’ il paradosso delle critiche grilline alla riforma, che costituisce un progetto omogeneo incrinato però proprio dalle mediazioni con il M5S. Perché il rischio di improcedibilità sia ridotto all’osso, infatti, sarebbe necessario recepire tutte le indicazioni della commissione Lattanzi su riti e pene alternative. In questo modo l’effetto deflattivo abbatterebbe il rischio di improcedibilità. Ma le proposte Lattanzi sono state accolte solo in parte proprio su istanza dei 5S, ciò spiega l’irritazione della guardasigilli.

Mattarella si augura che per quando il plenum del Csm si riunirà una soluzione concordata ci sia. È possibile ma al momento il traguardo non è a portata di mano. Ieri a sorpresa la ministra Dadone, dopo aver votato in sede di Cdm sia il testo della riforma che la richiesta di porre la fiducia, se ne è uscita affermando che se il testo finale non sarà ritenuto soddisfacente dal Movimento «l’uscita dal governo dei ministri 5S è un’ipotesi che dovremmo valutare con Conte».

Parole che fanno infuriare gli altri partiti della coalizione. La Lega diffonde una nota informale in cui parla di «profonda irritazione». La senatrice del Pd ed ex ministra Fedeli si dice «allibita» ma sopratutto il Pd si affretta a far sapere di non volersi spingere oltre la mediazione sulla norma transitoria che porterebbe a 3 anni i tempi per l’appello e a18 mesi quelli per la Cassazione. Oltre quel confine il Nazareno non sosterrà i 5S. Anche Patuanelli smentisce la Dadone e lei stessa si corregge: «Non è nel mio stile minacciare. C’è una chiara apertura di Draghi e della ministra di cui va preso atto». Ma alla Camera sarebbero oltre 30 i deputati decisi a non votare la fiducia e tra i 5S molti sono certi che a ispirare la ministra sia stato lo stesso Conte.