Sergio Mattarella varca il pontile che conduce da Capo Posillipo all’isolotto di Nisida e si reca in visita all’istituto penale per minori. Qui rispondendo a una sollecitazione, paragona la detenzione a una cicatrice, che prima o poi è destinata a rimarginarsi e che dunque non deve perseguitare per sempre il detenuto.

MATTARELLA RICORDA «il dovere di agevolare il reinserimento nella vita sociale», sottolineando come questa prospettiva non sia solo una dichiarazione di principio, bensì «vada garantita non a parole ma nei comportamenti dell’ordinamento e con il comportamento sociale delle altre persone, con la fiducia che occorre avere e sviluppare in maniera particolarmente forte, partendo dal valore di ciascuna persona». «Le mie parole vanno tradotte in comportamenti reali nella vita sociale», insiste il presidente della repubblica. Raccoglie l’adesione della ministra della giustizia Marta Cartabia, che lo affianca. «Credo fermamente che un dovere imperativo delle istituzioni penitenziarie sia infondere e diffondere speranza a tutte le persone detenute», dice Cartabia. Per la quale «non sempre è facile da un istituto di pena, credere in un oltre. Ma qui si deve e si può perché questo è un istituto di detenzione speciale, dove l’orizzonte non è interrotto dalle sbarre alle finestre, ma si proietta in tutta la sua ampiezza verso spazi sconfinati».

TUTTO CIÒ AVVIENE nelle ore in cui ci si interroga sulla vicenda di un bambino nato dietro le sbarre, figlio di una donna rom costretta a partorire in cella, nel carcere romano di Rebibbia. La donna, Amra, ha 23 anni. Era stata arrestata all’inizio dell’estate per un piccolo reato e condotta in cella con tanto di rigetto della richiesta di patteggiamento. Secondo il giudice della IV sezione penale del tribunale di Roma, Amra rischiava di reiterare il reato in quanto priva di occupazione e di una dimora stabile. Suona come una condanna preventiva dettata dalle condizioni di indigenza. Poi, alla metà dello scorso mese di agosto, era finita in infermeria e all’ospedale Pertini a causa di una sospetta emorragia. Qui l’aveva incontrata la garante dei diritti dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni, che aveva sollecitato il trasferimento della donna in una casa protetta per la tutela delle detenute con figli minori. Il posto c’era, ma nessuno risponde alla richiesta. Fino alla sera del primo settembre, quando Amra si sente male, le guardie vanno a chiamare soccorsi ma nel frattempo partorisce. Due giorni dopo il giudice ha acconsentito alla scarcerazione, accogliendo la richiesta di patteggiamento e condannando la donna a un anno e quattro mesi. Cartabia ha disposto l’invio di ispettori del Viminale per capire cosa sia successo.

DALL’AMMINISTRAZIONE penitenziaria, in effetti, lasciano intendere che qualcosa non ha funzionato sul fronte giudiziario. Per Bernardo Petralia, capo del Dap «nessuna responsabilità può essere addossata all’istituto penitenziario che si è adoperato, nel limite delle proprie responsabilità e competenze, per velocizzare al massimo le comunicazioni con l’autorità giudiziaria e le autorità sanitarie competenti, in relazione all’istanza di revoca della custodia cautelare avanzate dalla detenuta». Anche il sottosegretario alla giustizia Francesco Paolo Sisto scagiona l’istituto carcerario: «Non c’entra nulla con quanto accaduto» sostiene Sisto che indica la strada dell’«accertamento di eventuali responsabilità da parte di uffici diversi da quelli della struttura di reclusione». Petralia, dal canto suo, sostiene che «il Dap si sta attivando per ridurre il numero delle detenute-madri in carcere». Nelle carceri italiane al momento risultano detenuti tredici minori al seguito di undici madri. All’esame della commissione giustizia della camera c’è un progetto di legge sui minori nella carceri: chiede di evitare il carcere a tutte le madri con bambini che hanno meno di 6 anni. Porta la firma dei deputati Partito democratico Paolo Siani e Walter Verini. Che definiscono il parto di Amra a Rebibbia: «Una vergogna da cancellare».