«A certuni poter uccidere impunemente fa l’effetto di un bagno in fresche acque effervescenti, e per questa razza di persone, dagli occhi castani infantilmente sfrontati e pericolosamente vacui, la Crimea era soltanto una stazione termale dove si sottoponevano a un ciclo di cure osservando un regine tonificante e salutare per la loro indole». Così Osip Mandel’stam scriveva all’inizio degli anni Venti, rievocando a distanza di tempo i mesi trascorsi nella città di Teodosia mentre infuriava la guerra civile. Nell’omonima prosa (inserita nella raccolta Il rumore del tempo, a cura di Daniela Rizzi, Adelphi, 2012), lo stile frammentario e sperimentale del poeta rifletteva efficacemente come alla stratificazione storica offerta da Teodosia, «regina del Mar Grande» (o Nero), e al suo «corpo meraviglioso» si fossero di recente «incollate le zecche della prigione e della caserma» dei volontari filozaristi agli ordini dei generali Denikin e Vrangel’, mentre «centurioni che sapevano di cane e di lupo» si aggiravano inopinatamente per le sue vie. Se agli occhi di Mandel’stam quella che un tempo era stata una fiorente colonia genovese con il nome di Cafà conservava ancora la stupefacente capacità di «far finta che nulla fosse cambiato», dimostrandosi così «più antica, migliore e più pura di tutto quello che avveniva al suo interno», d’altro canto quella sinistra contiguità tra mattanza e rilassatezza balneare si sarebbe purtroppo rivelata destinata a ripetersi ben presto sulle coste della Crimea. Basti aprire Le benevole di Jonathan Littell (trad. di Margherita Botto, Einaudi, 2007), là dove in un sanatorio vicino a Jalta l’esausto ufficiale delle SS Maximilien Aue tenta di riprendersi dall’«affaticamento nervoso» che l’assistere ai massacri degli Einsatzgruppen nelle terre ucraine gli ha inevitabilmente provocato. Ma anche – a ritroso – le pagine immortali in cui un giovane ufficiale d’artiglieria dell’esercito zarista, Lev Nikolaevic Tolstoj, ritrae «quell’insolita commistione di una bella città e di uno sporco bivacco» che era Sebastopoli nel 1855, fissando nel contempo una volta per tutte il carattere antieroico, paradossale e disumano di qualsiasi guerra.

B. Michajlov Snobismo crimeano 2
Crocevia millenario di genti e civiltà, la penisola crimeana sembra riflettersi nella letteratura russa in forma di cronotopo cangiante, dove l’immagine del giardino di delizie, spesso declinata nelle sue varianti più orientaliste e gaudenti, trapassa senza soluzione di continuità in efferate carneficine che rivelano in modo incontrovertibile l’essenza degli eventi bellici. Così fu per Tolstoj che, di fronte allo stillicidio quotidiano consumato intorno al quarto bastione di Sebastopoli, aveva già osservato in tono lapidario come le controversie che la diplomazia non era in grado di appianare fossero ancor meno risolvibili «con la polvere e il sangue» (I racconti di Sebastopoli, trad. di Vittorio Tomelleri, Garzanti, 1995). Nel contempo, il governatorato di Tauride (così sarà chiamata fino al 1921 la Crimea) continuava pur sempre a essere l’«Oriente in miniatura» celebrato dal polacco (e suddito russo) Adam Mickiewicz nei suoi Sonetti di Crimea (trad. di Elena Croce e Elisabetta Cywiak, Adelphi, 1977), scritti nel 1825 sulla falsariga dei poemi meridionali composti qualche anno prima da Aleksandr Puskin che, nella città-giardino di Bachcisaraj, capitale dell’omonimo khanato, si aggirerà febbricitante nel 1821, trasfigurando le proprie pene amorose in quelle che, secondo la leggenda, qualche decennio prima avevano perseguitato il khan tataro Girej. Nella Fontana di Bachcisaraj, quest’ultimo apparirà per una volta tanto dimentico dei suoi eterni nemici (Genova, la Polonia e, ovviamente, l’impero zarista) e concentrato più che altro sulle schermaglie interne al suo harem. Da questo paradigma orientaleggiante, assecondato dallo stesso Puskin più in ossequio dei gusti dei lettori pietroburghesi che per intima convinzione, discende l’immagine di una Crimea buen retiro meridionale, che troverà la sua incarnazione ultima in termini di conformismo nei sanatori e nelle dacie che verranno qui riservati da Stalin in poi al meritato riposo della nomenklatura o dell’intelligencija sopravvissuta alle purghe. Uno stereotipo su cui peraltro Anton Cechov già ironizzava nel 1898, allorché, minato dalla tubercolosi, informava Lidija S. Mizinova di star comprando (a credito) una proprietà in una località pittoresca a soli venti minuti di cammino da Jalta dove trascorrere l’inverno «e far crescere l’uva spina da voi odiata (…) Ho già abbozzato la pianta, naturalmente senza dimenticare gli ospiti, ai quali ho assegnato una stanzuccia nello scantinato. In assenza degli ospiti ci terrò i tacchini» (Vita attraverso le lettere, trad. di Gigliola Venturi e Clara Coisson, Einaudi, 1989).

B. Michajlov Snobismo crimeano 3
Fino a che punto la Crimea sia stata una valvola di sfogo e di proiezione fantastica essenziale per l’intelligencija sovietica lo testimoniano non solo le splendide foto del ciclo Snobismo crimeano scattate da Boris Michajlov (Char’kov, 1938) nel 1982, ma anche la bizzarra acronia L’isola di Crimea scritta da Vasilij Aksenov nel 1979 (e tradotta da Patrizia Deotto per Mondadori nel 1988). Qui la penisola crimeana si trasforma in un’isola a tutti gli effetti che i bolscevichi nel 1920 non sono mai riusciti a riconquistare. Una sorta di enclave prerivoluzionaria al largo del Mar Nero capace di conservare sia la propria autonoma rispetto alla compagine imperiale sovietica, sia la propria neutralità nel corso del secondo conflitto mondiale. Una prospettiva fantapolitica in aperta contraddizione con la parabola esistenziale sperimentata realmente dal poeta simbolista Maksimilian Volosin che, sulle coste della penisola crimeana, nella sua dacia di Koktebel’, sarà animatore di un cenacolo artistico vivacissimo che attirerà fra gli altri Marina Cvetaeva. Questo almeno fino al luglio 1914, quando salirà per ultimo «come un animale ritardatario a bordo dell’Arca» che solcando il Mar Nero lo porterà via dalla Crimea, inghiottita pressoché subito dalla Grande guerra.

A Parigi nella raccolta Anno mundi ardentis (1915), il poeta russo nato a Kiev e amico di Rudolf Steiner sarà tra i pochi a condannare inequivocabilmente la carneficina in atto. Una posizione di singolare lucidità rispetto ai suoi amici inclini a interpretare la guerra come sacra missione contro il militarismo germanico, e che tuttavia resta inevitabilmente venata di malinconia. Se infatti Tolstoj, testimone oculare a Sebastopoli, poteva dichiarare di aver innalzato a eroina dei suoi reportage ante litteram la verità, Volosin di fronte alle menzogne evidenti dei giornali «patriottici», potrà solo ribadire il proprio diritto insopprimibile «a non cessare di amare il nemico / e di non prendere a odiare il fratello».