Carneficine d’autunno. Le valli bresciane e bergamasche, prima di diventare l’epicentro italiano di Covid-19, erano note per un altro flagello: i bracconieri a caccia di pettirossi, scriccioli, capinere, luì, usignoli, cince e codirossi, merli, passeri. Come spiega il dossier Sos animali in trappola (2018) del Wwf, quelle valli sono una delle più importanti rotte migratorie per l’avifauna europea. Ma il bracconaggio è diffuso in diverse altre aree (black spot) dello stivale e fa milioni di vittime, in genere piccolissime, dispiegando sul territorio una gamma di strumenti di tortura. I bracconieri hanno maniere forti anche rispetto agli umani che si mettono di traverso. Ne sa qualcosa Pier Giorgio Candela, ispettore nazionale antibracconaggio della Lipu che ogni autunno per due mesi perlustra il territorio per togliere trappole: decenni fa fu preso a fucilate.

In un comunicato di fine ottobre, varie associazioni (Cabs, Enpa, Gaia, Gruppo ornitologico lombardo, Lav, Lac, Legambiente Brescia, Lipu, pro natura Lombardia, Wwf Lombardia) hanno nuovamente denunciato un bracconaggio «fuori controllo», i tentativi di sabotare i controlli sull’attività venatoria, le accuse pretestuose rivolte alle forze dell’ordine e ai volontari delle associazioni per garantire impunità̀ ai bracconieri e il permanere degli interessi economici e clientelari. Fino all’imposizione regionale di indossare un abbigliamento ben visibile da parte delle guardie venatorie volontarie – un tentativo puerile di inficiare la vigilanza.
Tutto questo malgrado il «Piano nazionale di azione per il contrasto degli illeciti contro gli uccelli selvatici» retto dal Ministero dell’Ambiente. Nato dopo decenni di denunce ambientaliste e pressioni europee, non funziona? Spiega Ennio Bonfatti del Wwf, rappresentante delle associazioni ambientaliste nel Coordinamento locale piano anti bracconaggio dell’hot spot Sicilia occidentale: «Al di là delle ottime analisi, è gravemente lacunoso nei fatti. In alcune aree calde si sono raggiunti ottimi risultati, grazie all’impegno sinergico dei carabinieri forestali e delle associazioni con i loro volontari. Penso alla Sicilia occidentale, con un calo notevole della pressione venatoria, uccellatori arrestati, bracconieri denunciati. Miglioramenti anche sul litorale campano con denunce e sequestri settimanali. Nelle valli bresciane, poi, è ormai storico l’impegno nell’operazione Pettirosso e contro archetti, trappole, uccellagione. Ma in altre aree il piano non decolla; fra queste il delta del Po, di importanza continentale per l’afflusso di migratori da tutta Europa». Del resto, a muoversi davvero, fra gli attori formalmente coinvolti nel piano, sono pochi: «Praticamente solo i carabinieri forestali e le associazioni. Le regioni non pervenute, eppure la caccia è di loro competenza. E le polizie provinciali sono soppresse».

Zoppica anche l’aspetto normativo. Spiega Bonfatti: «Allo stato attuale i reati strettamente venatori (il classico bracconaggio) sono contravvenzionali e prevedono solo una multa, diventata alla fine irrisoria perché non aggiornata dai primi anni 1990. Ma, secondo una corrente giurisprudenziale ormai affermatasi, se il bracconiere non ha licenza di caccia allora si configura un furto ai danni dello Stato – la fauna è patrimonio statale. Da anni però le associazioni chiedono che sia modificata la legge 157/92 – Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio – proprio per introdurre ope legis questo principio».

Ma qual è il movente che spinge tante persone a torturare praticamente a mani nude pochi grammi di piume e ossa? Lo sbocco di mercato persiste: il consumo alimentare di uccelletti in diverse parti d’Italia è una tradizione che si perpetua; e in altre, come a Sud, termina Bonfatti, «c’è per esempio il racket dei cardellini: colorati, bellissimi e canterini». Finiscono ergastolani nelle gabbiette domestiche.