La proiezione, in una sala di Collecting Matta-Clark La raccolta Berg. Opere, documenti, ephemera (mostra nata dall’incontro tra Harold Berg, Federico De Melis e Gianni Dessì: Roma, Accademia Nazionale di San Luca, fino al 25 febbraio), ha una qualità ipnotica: sotto i nostri occhi un vecchio palazzo per uffici è sottoposto a una lenta, progressiva, sistematica demolizione, ma eseguita come se invece di atti spicci e definitivi ogni buco, ogni taglio praticato in travi, infissi, rivestimenti, muri, fosse al contrario il delicato preludio a una costruzione più sottile e segreta, estratta dalle viscere stesse dell’architettura, suo invisibile e avvincente negativo. Nei suoi 44 minuti, Office Baroque è in effetti molto più della documentazione filmata dell’opera omonima realizzata da Gordon Matta-Clark ad Anversa nel 1977. Ciò che viene offerto è insieme una splendida e intensa testimonianza dello sforzo fisico necessario alla sua creazione, e un prezioso equivalente visivo e temporale della sua elusiva condizione finita, a sua volta promessa a una rapida sparizione: un film-scultura in cui si fa esperienza di una vertigine piranesiana, in cui nuove prospettive, impreviste, instabili, sorprendenti, ci invitano a una lettura stratigrafica e caleidoscopica dell’edificio, del suo latente, multidimensionale potenziale plastico, del suo insospettato inconscio architettonico.
Morto a soli trentacinque anni nel 1978, Matta-Clark è da tempo riconosciuto come una delle figure essenziali di quella generazione di artisti che tra anni sessanta e settanta del Novecento hanno rivoluzionato il linguaggio della scultura, estraendolo dalla dimensione dell’atelier per fonderlo con quelle della performance e dell’architettura, e privilegiando la processualità, l’impatto fenomenologico, il valore site specific degli interventi. Il suo approccio combinava con grande originalità interessi assai diversi, dall’architettura alla scultura, dalle tematiche sociali agli happenings, dall’archeologia alle tecniche costruttive, dal disegno al cinema. I suoi strumenti operativi erano altrettanto diversificati: acquisto di proprietà immobiliari, occupazione e manipolazione di edifici, documentazione fotografica, films, calchi, prelievi di materiali, esperienze collettive (come il ristorante Food, aperto con la sua compagna Carol Goodden nel 1971), in un processo continuo che si estendeva dalla chirurgica distruzione del costruito alla programmatica ricostruzione del distrutto.
Le sue opere più famose (oggi tutte perdute) sono i «tagli» operati su strutture preesistenti, perlopiù edifici abbandonati o in via di demolizione; nel suo primo intervento, Bronx Floors (1972-’73) e in quelli successivi come Splitting: Four Corners (’74) e Bingo (’74), Matta-Clark pratica nuove aperture, seziona fabbricati, ne preleva angoli o intere facciate. La complessità e la scala dei lavori tende a crescere nel tempo: in Day’s End (’75), ad esempio, un grande magazzino abbandonato sul Pier 52 a New York, Matta-Clark realizza un grande taglio curvilineo nello spessore dell’imponente struttura in acciaio in riva all’Hudson River, mentre in Conical Intersect (Étant d’art pour locataire, 27-29 rue Beaubourg), del 1975, il taglio prende la forma tridimensionale di un grande cono – orientato a circa 45° rispetto alla strada sottostante – che si immerge, svuotandolo, all’interno di un edificio seicentesco destinato alla demolizione, permettendo ai passanti di scorgere appena dietro, come attraverso un cannocchiale rovesciato, l’immenso esoscheletro del Centre Pompidou in costruzione.
Tagliare, scomporre, aprire, significa anzitutto per Matta-Clark far irrompere il disordine, l’entropia, in contesti irrigiditi: muri e solai si vedono improvvisamente sottratte le loro funzioni e tutta la gerarchia spaziale degli edifici viene sovvertita. La sua concezione di anarchitecture (nome anche di un gruppo da lui fondato nel 1973) riassume il suo approccio decostruttivo, anarchico, al tema architettonico per eccellenza, l’edificio, di cui smonta impietosamente i meccanismi socio-economici e i miti culturali. I «tagli», in effetti, oltre a creare nuovi punti di vista, rivelano anche le vicende interne dell’edificio e agiscono dunque come rivelatori delle connessioni invisibili tra individui, forme di vita, contesti sociali. «Il fattore determinante è il grado in cui il mio intervento riesce a trasformare la struttura in un atto di comunicazione», ha scritto Matta-Clark. Abbattere un muro significa quindi anche «dare la parola» direttamente all’edificio perché racconti la propria vicenda materiale.
Le tipologie edilizie utilizzate possiedono, da questo punto di vista, un valore esemplare: i «blocchi» delle periferie segnalano l’imprigionamento dei più poveri, le villette suburbane l’autoisolamento della middle class, gli immobili per uffici la rigida organizzazione gerarchica del lavoro, gli edifici industriali abbandonati la decaduta razionalità produttiva. Permettere alla luce naturale di irrompere all’interno di questi edifici non può non indicare anche la necessità di una società più aperta e permeabile.
Di questo breve e intensissimo percorso creativo la mostra romana offre un’affascinante testimonianza attraverso disegni, fotografie, filmati e un’ampia selezione di documenti, tutti provenienti dalla raccolta del collezionista Harold Berg. Si passa dai primissimi lavori, come Tree Dance (1971), a immagini intime (Hair Play, ’72), a opere maggiori, come Gordon Matta-Clark at Documenta 1977, un film – montato dallo stesso Berg a partire dal footage originale rimasto inedito per decenni – in cui è documentata la realizzazione di Jacob’s Ladder, lavoro singolare e visionario presentato alla rassegna di Kassel, sino a Circus – Caribbean Orange (’78), un intervento a scala monumentale realizzato a Chicago, dove i profili ritagliati di tre grandi sfere si susseguono sulla diagonale ascendente dal livello stradale al tetto di un edificio, fendendo gli spazi interni secondo un andamento vorticoso tradotto in una serie di straordinari cibachromes.
La collezione – come Berg confida a Federico De Melis nel bel catalogo che accompagna l’esposizione – nasce anzitutto come forma di simpatia e affinità esistenziale con l’artista, una passione e un’ossessione personale da cui si può trarre spunto per una riflessione storica. Nel collezionare opere di process art – opere cioè in cui entrano in crisi le nozioni stesse di autografia e originalità alla base del tradizionale collezionismo artistico –, tracce spettrali di opere irrimediabilmente perdute, Berg fa in effetti pensare non tanto a collezionisti contemporanei come François Pinault, per i quali il collezionare diviene una forma di metacreazione, di «valorizzazione del valore» come avrebbe detto Marx, una dimostrazione della potenza materiale e simbolica del capitale, quanto alla figura evocata in una pagina famosa dei Passages di Walter Benjamin. Tipica creatura dell’epoca moderna, il collezionista è infatti impegnato nel compito impossibile di «togliere alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce» conferendo loro «solo un valore d’amatore invece del valore d’uso», grazie a un incantesimo capace di inscrivere «il singolo oggetto in un cerchio magico in cui esso s’irrigidisce, nell’atto stesso in cui un ultimo brivido (il brivido dell’essere acquistato) lo attraversa».
Forse è questa la chiave giusta per interpretare la passione esclusiva di Harold Berg per Matta-Clark: se l’artista riscatta i gusci svuotati di architetture condannate alla distruzione perché obsolete, inservibili, improduttive, illuminandone in extremis, un attimo prima della loro definitiva obliterazione, un nuovo potenziale di senso e di esperienza, il collezionista cerca di preservare nel presente, nel cerchio magico della propria raccolta, una scintilla dell’energia di immaginazione, forse della stessa presenza vivente dell’artista. Scommessa paradossale, e proprio per questo irresistibile.