Sarà disponibile dal 17 agosto su Netflix Disincanto, la nuova serie animata creata da Matt Groening che segue la storia di una principessa da fiaba alcolizzata e depressa, il suo compagno Elfo e il suo «demone personale» Luci, e le loro avventure in un regno medievale: Dreamland. Il registro naturalmente è quello dissacrante su cui Groening ha costruito la fortuna dei Simpsons e Futurama – e ancora prima di Life in Hell. Abbiamo incontrato a Los Angeles il disegnatore, animatore e produttore per parlare della serie dal titolo volutamente «anti disneyiano».   

Ci parli di «Disincanto».
La protagonista è la principessa Bean – ma non è proprio una principessa classica, non le mancano i difetti. Beve come una spugna, non solo perché sono affezionato alle battute sull’alcol ma per rendere chiaro da subito che non si tratta di Cenerentola, e non siamo la Disney. Mi sono ispirato a certe fiabe e storie con cui sono cresciuto e ad altre che ho scoperto più di recente, come uno straordinario libro di Italo Calvino – Fiabe Italiane. Mi piace trovare gli elementi iconici di una fiaba e ribaltarli. Poi naturalmente lavorando a una storia fantasy è impossibile non essere influenzati da Tolkien.

Altre ispirazioni cinematografiche?
L’arte di raccontare può essere vista da molti lati diversi – prima di tutto c’è il semplice problema di risolvere il rebus della storia. Poi c’è il gusto di omaggiare le cose che ti piacciono, e io sono da sempre appassionato di film indiani e cinema muto. E così in Disincanto ci sono riferimenti a Chaplin e Buster Keaton, al primo WC Fields e ai cartoon dei fratelli Fleischer, i primi film sonori. In più c’è tutta la televisione che ho guardato da ragazzo .

C’è un nesso col suo precedente lavoro?
Volevo istituire una «parentela» con Futurama e Simpson ma non che fosse la stessa cosa. Come animatore sono un grande fan di Pixar, Dreamworks, Illumination e Disney. C’è una serie di libri che vengono pubblicati dopo l’uscita di praticamente ogni film di animazione: L’arte di Cattivissimo Me, di Kung Fu Panda, Coco e così via. Quello che mi appassiona ancor più del prodotto finito sono le fasi concettuali, i primi studi e schizzi per il film. Il look di Disincanto è volutamente ispirato a quei disegni preliminari.

È fondamentale il contributo della musica.
Abbiamo contattato Mark Mothersbaugh, uno dei fondatori dei Devo – di cui sono fan fedele sin dal 1978, quando da Akron in Ohio sono venuti a Los Angeles, e andavo a vederli in minuscoli locali in città. Lui poi ha fatto le musiche per tanti film e serie come Pee Wee’s Playhouse e I Rugrats. A questo progetto ha dato un taglio tutto suo: un po’ fanfara tzigana, un po’ di Ska e un po’ di Klezmer.

Anche lei ora lavora con Netflix.
Ricordo bene quando erano ancora un servizio di dvd spediti per posta. E ricordo di aver incontrato uno dei loro dirigenti molti anni fa e di avergli detto: «Non vedo proprio come sia sostenibile un modello basato su spedizioni postali», e lui rispose che l’idea era poi passare a internet. E io: «Non funzionerà mai, le connessioni sono troppo lente». Il resto è storia. Adesso tutti facciamo binge-watching, mi è capitato di farlo con vecchie serie dei Simpson e di riscoprire episodi di cui mi ero dimenticato. Il fatto che non ci sia pubblicità ti permette il lusso di raccontare storie più lunghe, gli episodi sono di almeno 25 minuti, il pilota di 35 . E il risultato è che cambia anche il ritmo della storia: in Disincanto ci possiamo permettere di rallentare la trama in modi che non sarebbero pensabili con i Simpson e Futurama – il dialogo ha un altro respiro. E Netflix ha appoggiato tutte le nostre decisioni.

In Usa recentemente ci sono state polemiche su un personaggio dei «Simpson», Apu.
Quando ho iniziato a lavorare in Tv parte del divertimento stava nel rivolgersi ai propri fan in libertà. E se il rischio era di offendere altre parti del pubblico era ritenuto accettabile. Ora il mio obbiettivo è di far ridere anche quelle persone che potrebbero sentirsi offese. Riuscire a divertire qualcuno anche se non è d’accordo con te è una vittoria creativa.

Ci parli dei suoi inizi.
Sono un giornalista in fase di recupero. Agli inizi lavoravo per il «LA Weekly» e prima ancora per il «Los Angeles Reader», recensivo concerti in giro per la città. E sono estremamente solidale con chiunque abbia a che fare con le scadenze giornalistiche – erano le mie croci. Quando facevo il giornalista freelance lavoravo solo abbastanza da pagare l’affitto, poi smettevo fino a fine mese.

Ma la carriera di storyteller era iniziata già molto prima vero?
Mio padre, il modello per Homer, era anche lui un cartoonist e io lui ci inventavamo storie assieme. Ne abbiamo inventata una che si chiamava La Storia e i protagonisti eravamo io e mia sorella Lisa: andavamo a spasso nel bosco, incontravamo una serie di animali e li aiutavamo. L’ho raccontata a mia sorella Lisa e a sua volta lei l’ha raccontata a nostra sorella Maggie. Poi nel 1964 mio padre ci ha filmati mentre recitavamo le nostre parti e mia sorella faceva la narratrice. Si può vedere ancora oggi su Youtube: ci sono io coi capelli a spazzola ancora più corti di quelli di Bart.

Si dice che con i «Simpson» abbiate previsto il futuro.
Si, perché abbiamo sempre cercato di pensare alle ipotesi più assurde. Così in un episodio degli anni ’90 abbiamo perfino immaginato l’impossibile: che fosse diventato presidente Donald Trump