Il conto alla rovescia è cominciato. Lunedì la Corte suprema degli Usa potrebbe rendere pubblica la decisione nel caso Obergefell v. Hodges, la storica causa sul diritto al matrimonio per le coppie dello stesso sesso.
La decisione della Corte sarà valida per i 50 Stati dell’Unione, anche per i 14 dove le coppie omosessuali non possono ancora sposarsi, e porrà la parola fine a un dibattito iniziato nel 2003, quando il Massachusetts riconobbe il matrimonio egualitario costituzionalmente fondato.

La Corte non comunica in anticipo quali sentenze pronuncerà, ma si limita a fornire un calendario delle giornate dedicate a udienze, camere di consiglio e alla notifica delle decisioni. Di certo c’è che il dibattimento si è già svolto (il 28 aprile), e la decisione è stata già presa: quello che manca ancora è la comunicazione pubblica.

Se la sentenza non fosse resa nota dopodomani, lo sarà necessariamente il lunedì successivo, 29 giugno, perché poi la Corte si fermerà per la pausa estiva. A differenza del contesto europeo, dove l’avanzata del matrimonio egualitario è stata sospinta dalla volontà del legislatore (e da quella popolare, nel caso recente dell’Irlanda), negli Usa un ruolo determinante è stato giocato dai tribunali federali.

Questo dipende soprattutto dalle caratteristiche del sistema costituzionale americano, imperniato sui principi dei precedenti giurisprudenziali vincolanti e del controllo diffuso di costituzionalità. In base al primo, il giudice è obbligato ad adeguarsi a una decisione assunta in precedenza da un giudice a lui superiore. Il secondo principio assegna a tutte le corti federali il compito di verificare la compatibilità delle leggi e delle costituzioni dei singoli Stati con le leggi e con la Costituzione Usa. Il controllo di costituzionalità può essere sollecitato da chiunque si senta leso nei propri diritti.

Le caratteristiche istituzionali americane hanno storicamente influenzato tempi, modalità e protagonisti della battaglia per i diritti civili, assegnando al sistema giudiziario un ruolo determinante. Basti pensare alla funzione avuta dai tribunali nella tutela dei manifestanti per i diritti civili negli anni Sessanta, o ancora di più nello smantellamento della segregazione razziale nel Sud o nell’affermazione del diritto all’aborto. E così è anche in questo caso. Tanto più che la Corte suprema si trova a stabilire se vietare alle coppie omosessuali di sposarsi rappresenti una violazione del Quattordicesimo emendamento della Costituzione, ratificato dopo la Guerra civile per assicurare il riconoscimento della cittadinanza e la «eguale protezione delle leggi» agli ex schiavi.

Quando le autorità federali si trovano a garantire l’applicazione degli emendamenti della Guerra civile, il loro potere tocca il suo apice e assume, anche simbolicamente, i contorni più chiaramente emancipazionisti. La Corte suprema ha accettato di affrontare il caso Obergefell v. Hodges nel gennaio scorso, per dirimere un conflitto tra le Corti d’appello federali, che hanno una giurisdizione sovra-statale. Da una parte, le Corti del Nono Circuito (ovest), del Decimo (mid-west), del Settimo (Grandi laghi) e del Quarto (sud-est) hanno sancito l’esistenza di un diritto costituzionale al matrimonio per le coppie dello stesso sesso, cancellando le norme statali che definivano solo eterosessuale l’unione coniugale.

D’altra parte, la Corte d’appello del Sesto Circuito – con giurisdizione su Michigan, Ohio, Tennessee e Kentucky – ha confermato il diritto degli Stati a mantenere una definizione tradizionale di matrimonio. È stata proprio questa sentenza ad essere impugnata da gay e lesbiche che rivendicano il diritto di sposarsi nel proprio Stato di residenza, o chiedono che il loro Stato riconosca il matrimonio contratto altrove. La diversa interpretazione della Costituzione fornita dalla Corte d’appello del Sesto circuito ha determinato l’intervento della Corte suprema, che ha, tra gli altri, il compito di garantire un’uniforme applicazione del diritto a livello nazionale.

Nel dibattimento, i nove giudici della Corte sono sembrati divisi secondo le consuete fratture ideologiche: i quattro giudici progressisti (tra i quali le tre donne che siedono nel collegio) si sono mostrati chiaramente a favore dei diritti delle coppie, mentre i due giudici più conservatori Antonin Scalia e Samuel Alito sono sembrati certamente ostili; un terzo giudice conservatore, Clarence Thomas, non è intervenuto durante l’udienza, ma è certo che si schiererà con la destra della Corte.

Più ambigua resta la posizione del Presidente, John Roberts – un conservatore, ma più moderato degli altri tre – e soprattutto quella di Anthony Kennedy, il giudice «centrista» che, di solito, esprime il cosiddetto swing-vote, il voto che fa pendere la bilancia verso i conservatori o verso i progressisti. Se si guarda ai precedenti, in tutti i casi portati davanti alla Corte che riguardavano i diritti delle persone omosessuali dal 1996, Kennedy si è sempre schierato con i progressisti. Di più: è stato l’autore di tutte queste sentenze.

Non è semplice fare pronostici, ma qualche indicazione incoraggiante c’è. Ruth Bader Ginsburg, decana della componente progressista della Corte e sostenitrice dei diritti delle persone lgbt, è intervenuta una settimana fa davanti all’American Constitution Society per parlare del cammino dei diritti degli omosessuali negli Usa. La giudice, ovviamente, conosce già la decisione assunta da lei e i suoi colleghi.

La discriminazione – ha spiegato – ha cominciato a crollare quando gay e lesbiche hanno smesso di nascondersi e hanno fatto coming out, mostrando che «erano i nostri vicini di casa, il migliore amico di nostro figlio, i nostri figli, persone che conosciamo e amiamo e rispettiamo, che sono parte di noi. Questo – ha concluso – spiega i successi del movimento lgbt». Non sono sembrate parole di una persona che ha subito una dura sconfitta.