Ci voleva Henri Matisse (coadiuvato da Ester Coen) per dare respiro, e una qualche forma di sintassi, alle superfici disgraziatissime delle Scuderie del Quirinale. Nel maestro di Le Cateau la risoluzione integrale nel piano, in antitesi all’illusionismo prospettico, e a quello sensoriale degli impressionisti, ha significato una dilatazione del senso dello spazio mai sperimentata prima: egli capì che solo il gioco armonico dei colori puri poteva ridare slancio ed energia alla dimensione spaziale, saccheggiata e inflazionata dalla facilità e pigrizia delle pratiche accademiche, ma anche messa a rischio dalla fissità del principio delle tinte complementari propugnato dai divisionisti, che pure a Matisse avevano dato ala. Il fauvismo, che ebbe il suo battesimo nel celebre Salon d’Automne del 1905, questo significò, e in tal senso rappresenta la prima rottura del Novecento, senza la quale anche gli immediati sviluppi, cioè il cubismo, avrebbero assunto connotati diversi – non è per caso che uno dei due maggiori cubisti, Georges Braque, aveva sperimentato intensamente, seppure già in senso ‘costruttivo’, la liberazione timbrica del colore, e che due fauve della prima ora come Derain e Dufy non avrebbero mancato di sacrificare al cubismo.

Non tarderemo ad annotare, come la mostra Matisse. Arabesque ci consiglia con la perfezione amorosa dei confronti extraeuropei, che per sviluppare la sua poetica di superficie ‘spaziosa’ il pittore si avvalse, prensile e determinato, di un variegato repertorio di forme e morfologie e orientali e africane. Sul ruolo di queste culture nella sua opera la critica si è espressa ormai tante volte da far sospettare che poco ci fosse ancora da dire. Anche sul piano espositivo non sono mancate occasioni, e personalmente ricordiamo la mostra, anch’essa romana, dei Musei Capitolini, 1997, e Le Maroc de Matisse, 1999, al parigino Institut du monde arabe. Ma entrambe, prive di paragoni al vivo con esempi tratti dalle culture di riferimento, per quanto carezzevoli restavano chiuse in un limbo evocativo, nel caso della prima – sottotitolata con la frase di Matisse «La révélation m’est venue de l’Orient» – al limite dell’esoterico, e infatti a curarla era il nipote dell’artista Claude Duthuit che, sulla linea del padre Georges, sembra avere letto in un senso un po’ troppo «etnografico» l’opera del nonno.

Arte maomettana a Monaco, 1910

Proprio nella mancanza o indeterminatezza delle referenze possono nascere, intorno a Matisse, le mitologie orientaliste, e in questo senso la mostra di Ester Coen, aperta ancora una settimana, rappresenta un felice contravveleno, non solo perché esibisce, a confronto con una serie di ben scelte opere matissiane, una vasta gamma di reperti islamici, africani, estremo-orientali (in particolare giapponesi), ma anche li dosa secondo il posto che, interpretativamente, questi mondi della figura occupano nel lavoro e nella parabola del pittore. Il risultato è che, uscendo dalla mostra, non ci si porta dietro la fastidiosa traccia di quel culturalismo, peste del nostro tempo, dove i valori si mescolano e si confondono, ma resta fermo che quella teoria di influenze altre è stata possibile solo in virtù di una solida radice francese, in primo luogo, come Matisse ha più volte dichiarato, cézanniana. Insomma, per dirla con Longhi, non un «Averroè del puro cromatismo».

Appare fin troppo chiaro, dalla mostra, che l’ingrediente fondamentale fu quello islamico, di cui Matisse poté fare esperienza in modo organizzato visitando insieme a Marquet, l’amico di una vita, il fauve «in grigio», la grandiosa esposizione di Monaco del 1910, intitolata all’arte maomettana. Già c’erano stati i primi contatti fisici con la luce del Maghreb, ma non c’è dubbio che la mostra monacense, come spiega bene in catalogo (un controllato catalogo Skira) Eva-Maria Troelenberg, fu decisiva, in particolare per il carattere decontestualizzante, che favorendo una percezione ‘in vitro’ diede modo a Matisse di innestare più facilmente i nuovi suggerimenti formali sulla linea di ricerca di quel momento. Uscito dalla fase fauve, dall’à-plat intensamente espressivo, Matisse si era reso conto di dover trovare una nuova calibratura che, senza sottomettere il colore, potesse re-indirizzarlo, renderlo più melodioso e suadente, in funzione di una poetica davvero personale. Allora riprende statuto il disegno, e proprio qui agisce l’incantamento musulmano, perché Matisse realizza che la sua poetica di superficie può trarre incondizionatamente dalla linea decorante per esempio della ceramica persiana o turca genere Iznik, di cui alle Scuderie vengono offerti saggi ipnotizzanti. Peccato che manchi in mostra la tela forse più paradigmatica in questo senso, Intérieur aux aubergines del 1911 (Museo di Grenoble), dove il ‘divertimento’ degli arabeschi si risolve in una rutilante scansione di piani colorati.

Il mito delle arts nègre

È forse il momento più ‘formalistico’ nell’avventura di Matisse, quello di cui lui dice «i miei quadri si organizzano per combinazioni di macchie e di arabeschi», e ne dà testimonianza una magica parete di opere datate tra 1912 e 1913, tra le quali la celebre Zorah sur la terrasse, pannello centrale del trittico realizzato per il collezionista russo Morozov e conservato al museo Pushkin di Mosca. Non dimentichiamo la passione di Matisse per i tessuti, che ha radici nella prima infanzia trascorsa a Bohain, centro di tessitura a mano da cui uscivano scialli indiani «ornati di palmette e bordati di frange» (così il suo ricordo nell’«intervista perduta» con Pierre Courthion, appena edita da Skira), ma è rinfocolata, per divenire costante motivo anche tematico, dai due viaggi in Marocco compiuti in questo torno di anni. Pure su questo tipo di produzione – tappeti, tende, tessuti da parete – la mostra offre una selezione breve ma attenta alla qualità, come risulta all’occhio anche meno esperto.

A Ester Coen è riuscito di trovare un perfetto equilibrio di presentazione: scegliendo di procedere per tranche ‘geografiche’, ha rinunciato all’andamento cronologico; poche e parche le spieghe, ma l’affidarsi completamente a Matisse, alla sua sintassi naturalmente ordinatrice, ha pagato abbondantemente, così il visitatore trae dall’esperienza non nozioni ma il significato pieno di un’estetica. Capisce ad esempio, se solo ha qualche dimestichezza con i testi portanti del cubismo analitico, come le arts négre, vero e proprio mito della ricerca sperimentale di inizio Novecento (e ancora si dibatte su chi sia stato il primo a infiammiarsi sugli idoli africani: Vlaminck? Derain?), rivestano, nell’opera di Matisse, un ruolo perfino opposto che in Picasso: anche in opere «cubiste» come Mademoiselle Yvonne Landsberg, giunta a Roma da Filadelfia, Matisse non sembra interessato a trarre dall’astrazione delle maschere o delle statuette négre il significato strutturale, e intensamente realista, che permise al Malagueño di sintetizzare in una singola immagine punti di vista mobili o variabili, ma di volerla utilizzare, piuttosto, a rinforzo di un’opzione ‘decorativa’, di un processo di depurazione che finisse per risolvere la figura umana nel suo fantasma formale linea-colore. Con in più un senso di ‘apparizione’, che solo il mistero di quegli oggetti, non ancora studiati e catalogati dall’etnografia novecentesca, poteva trasferire nel mondo di Matisse, come è documentato del resto, aneddoticamente, dal celebre episodio del negozio di curiosità Le Père Sauvage, dove il pittore si incanta dinanzi a una statuetta Congo-Vili, ragiona sul suo antinaturalismo che paragona a quello degli Egizi, la acquista per pochi franchi, la porta in casa di Gertrude Stein dove arriva Picasso che ne resta impressionato (è l’autunno del 1906, manca un anno alle Demoiselles d’Avignon).

Meno importanza sembrano avere per Matisse le stampe giapponesi, la cui «lezione di purezza, di armonia» agisce nella sua opera in modo vago e indeterminato, come portato culturale di un’epoca che, con Gauguin, Toulouse e i Nabis, ne aveva fatto invece una chiave di volta stilistica. Non basta agire sul piano, rovesciare i termini delle leggi prospettiche a ‘fare’ giapponese, ci vuole anche un ‘gusto’, una sensiblerie, che restano estranee alla solarità di Matisse, in fondo anche nell’opera sua più simbolista, La Joie de vivre, che è del 1905-’06. Quanta differenza tra il giapponismo di Bonnard, così giustificato stilisticamente, e fino agli anni ultimi, e quello dell’amico suo Matisse! Del resto è insieme che avevano scoperto le xilografie colorate di Hokusai e Hiroshige, ma in riproduzioni mediocri, però con un’emozione, ricorda Matisse, che non si sarebbe rinnovata quando riuscì a vederne gli originali: «non mi comunicavano più la freschezza di una rivelazione». Un maggiore impatto sul pittore lo ebbero i raffinati linearismi ‘galleggianti’ dei tessuti giapponesi e cinesi, di cui possiamo ammirare splendidi esemplari, i quali, giusta l’osservazione di Ester Coen, aiutano Matisse nella sua ricerca planare di «uno spazio più spontaneo e fresco, dalla dimensione audace, non coercitiva».

«Rossignol», in scena un dipinto

Una dimensione che vediamo concretizzarsi anche nelle arti applicate, con i costumi per Le Chant du rossignol di Stravinskij e Diaghilev, coreografia di Massine, andato in scena il 2 febbraio 1920 all’Opéra Garnier di Parigi. Come si deve essere divertito Matisse – dopo le prime resistenze, anche comiche – a sperimentare sulla scena la possibilità di realizzare «un dipinto con i colori che si muovono», e «questi colori sono i costumi» (testimonianza resa a Courthion). Il colpo di teatro su cui si incardina il secondo piano delle Scuderie, con i costumi appunto per il Rossignol, non restituisce nemmeno alla lontana ciò che deve essere stato il vivo dell’esibizione, la ricerca dell’‘armonia cromatica’, stella fissa per Matisse, ma attraverso il movimento. In questo senso il disegno dipinto o ricamato o applicato sul tessuto dei costumi non poteva che essere semplice e geometrico, un’idea di pura superficie (proprio come in certe sete dell’Estremo oriente) chiamata a rendere più elastico e pittorico lo spazio reale della scena. E dal sublime ‘artigianato’ di Matisse in questa occasione di arte applicata noi sentiamo già levarsi il rumore delle forbici con cui negli anni ultimi, dalla sua carrozzella di dolore, darà vita ai papiers découpés, esempio estremo, su carta colorata, di arte disapplicata.