Con un lunghissimo applauso il pubblico ha ricompensato Mathieu Amalric e il cast del suo nuovo film. Serre-moi fort (alla lettera, stringimi forte) è in programma nella sezione « Cannes première », ma non pochi avrebbero voluto che competesse per la palma d’oro. Si tratta di un mélo. E come in Drive my Car (capolavoro in concorso del giapponese Hamagushi, e di cui parleremo a breve), al centro del film, a dare il ritmo e direzione alla narrazione, c’è una vecchia coupé che il protagonista, in questo caso una donna di nome Clarisse (Vicky Krieps) che ha perso il marito Marc (Ariel Worthaler) e i due figli in un incidente di montagna, guida con calma e tenacia, tenendo il volante in direzione della propria esperienza mentale. Altro dettaglio che lega il film di Mathieu Amalric a quello di Rhyusuke Hamagushi: l’automobile è una sorta di carro funebre. E il ruolo del film non è quello di farlo avanzare, ma piuttosto di riuscire a parcheggiarlo da qualche parte, perché il lutto possa infine consumarsi. E per conseguenza entrambi appaiono come un lungo addio in cui il mélo si sovrappone al road movie, anche nei dettagli. L’autoradio, per esempio, diffonde la voce dei defunti o la musica che la figlia di Clarisse avrebbe potuto suonare al pianoforte, se la morte non l’avesse privata della carriera alla quale, forse, era destinata.

UNA PARENTESI. Non sono pochi, qui a Cannes, i film che cantano un peana all’automobile. A quest’oggetto che nella vita reale sempre di più è diventato un nemico delle nostre vite, perché ci uccide con i suoi gas, perché deturpa l’urbanismo delle nostre città, perché per riempirne i serbatoi si giustificano le peggiori atrocità geopolitiche, senza parlare dei cambiamenti climatici che stanno distruggendo il nostro futuro. Come il cinema se sapesse meglio di noi che, volenti o nolenti, dovremo dire addio all’uso individuale della macchina. O che, se non saremo in grando di farlo, sarà peggio per noi.
Torniamo al film. Che cosa c’è di così straordinario? Di certo è il tono estremamente sobrio del trattamento. E la novità del suo dispositivo. Ma come spiegare l’innovazione e la bellezza della soluzione formale trovata dal regista senza rivelare troppo del suo dispositivo? Per non raccontare troppo d’un film che è assolutamente necessario scoprire in sala, possiamo compararne il dispositivo a quello, simile ma non identico, pensato dal romanziere David Grossman nel libro A un cerbiatto somiglia il mio amore dove una madre, che forse ha ispirato Mathieu Amalric.

PER EVITARE un annuncio che potrebbe risultare tragico, l’eroina di Grossman decide di partire e di rendersi irreperibile, con l’idea che: «finché non lo so, non è accaduto». Qualcosa del genere avviene in Serre-moi fort, che nonostante il titolo non è affatto un film dove l’emozione è distribuita a piene mani, ma al contrario distillata goccia a goccia. Il viaggio in macchina di Serre-moi fort un viaggio soprattutto mentale, nel quale il film si perde in un gioco di montaggio in cui i ricordi della vita di prima del dramma si mescolano con la voglia di immaginare il prolungamento dell’esistenza di chi non c’è più. Questo gioco è quello delle facoltà della memoria e dell’immaginazione, in cui Amalric si lascia volentieri andare, quasi fino al punto di cadere in quei paradossi linguistici che piacevano tanto a Pascal. Ma, ogni volta che Serre-moi fort è sul punto di eccedere nel proprio formalismo si riprende, grazie a un dettaglio, un colpo di genio, una battuta. Quella che rimane in testa, è la risposta di Clarisse a un passante che rivolge alla sua macchina un apprezzamento del genere di quelli che un tempo, prima che metoo ci facesse capire che non è bene, si facevano alle ragazze. E lei: «e io che sono, un pomodoro ripieno !?».

TUTTI, ANCHE FUORI della Francia conoscono Amalric attore e la sua versatilità: a suo agio con l’ironia istrionica di Desplechin, con la leggerezza dei Larrieu, e sempre disponibile a fare la spia francese in una grande produzione hollywoodiana. Conosciamo meno Amalric regista, altrettano versatile, altrettanto grande, se non di più. Forse è a causa della sua prolificità d’attore se, ogni volta che viene a Cannes con un film, ci dimentichiamo che il suo primo obiettivo è da sempre quello di essere regista, e che se è diventato attore è stato quasi per gioco. O, piuttosto, perché non ha mai interpretato la parola autore come una condanna a girare sempre lo stesso film, ma come un dovere di reinventarsi e produrre ogni volta un opera completamente diversa dalle precedenti.