Mathias Énard ha fatto da tempo del viaggio e della scoperta le caratteristiche del suo approccio alla letteratura come alla poesia. Nato nel 1972 nel centro della Francia atlantica nel corso degli ultimi vent’anni ha vissuto via via a Teheran, il Cairo, Venezia, Damasco, Beirut e, infine, a Barcellona. Dopo una formazione in storia dell’arte all’École du Louvre, ha studiato persiano e arabo, lingua che insegna all’università autonoma della città catalana, e viaggiato a lungo in Medio oriente, nei Balcani e nelle ex repubbliche sovietiche. Nella sua produzione si contano oltre una decina di titoli che spaziano dal romanzo alla poesia, passando per raccolte di racconti e versi che ripercorrono gli itinerari e le scoperte dell’autore che indaga luoghi e culture, dall’immaginario viaggio di Michelangelo a Costantinopoli di Parlami di battaglie, di re e di elefanti (Rizzoli), alle guerre dei Balcani di La perfezione del tiro (e/o). Con Bussola (e/o) ha vinto nel 2015 il premio Goncourt.

Énard parteciperà oggi alle 17,30 a «Vita Nova», la rassegna allestita dal Salone del libro di Torino, intervenendo sul confronto tra Oriente e Occidente. Un tema che come gran parte della sua opera è al centro anche dell’Ultimo discorso alla società proustiana di Barcellona, pubblicato di recente da e/o (pp. 262, euro 18, traduzione di Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta).

Lei è chiamato a riflettere sul confronto tra Oriente e Occidente, «tra sconfinamenti, alleanze, tradimenti». La sua intera opera sembra però dirci che si tratta di termini che appartengono più allo sguardo di chi osserva che alla realtà che si vorrebbe descrivere.
Assolutamente. Più passa il tempo e più mi convinco che sarebbe utile abbandonare questa presunta coppia dialettica a favore di una definizione di «ovest» e «est», qualcosa che si limiti a parlare soltanto di coordinate geografiche e non di altro. Questo perché si tratta di termini così profondamente segnati dall’eco di una visione orientalista, propria dell’età coloniale, che porta con sé la fascinazione per l’esotico ma anche l’idea di dominio. In realtà, quando si mettono in contrapposizione questi elementi si rompe in modo artificiale una linea di continuità che esiste da sempre, pur se tra rotture e passaggi. Un esempio? Quando Antoine Galland tradusse per la prima volta dall’arabo nel 1704 l’opera di origine persiana Le mille e una notte, aggiunse la figura del marinaio Sinbad alla raccolta di racconti che possedeva e che sarebbe stata usata nelle edizioni arabe del Cairo negli anni ottanta del XIX secolo. Le prime versioni turche saranno poi tradotte dal francese, riprendendo questa versione che era stata scritta a Parigi.

Buona parte dei suoi libri racconta dell’attraversamento, del superamento di linee geografiche come culturali: cosa rappresentano ai suoi occhi le frontiere?
Si tratta di un argomento che mi appassiona profondamente. La frontiera può rappresentare qualcosa di molto violento, quando si chiude di fronte al desiderio e al bisogno di attraversarla – pensiamo alle politiche dell’Unione europea che provocano decine di morti in mare ogni giorno – ma, al tempo stesso, può incarnare una possibilità, un’occasione offerta al cambiamento, al passaggio, all’incontro. C’è una sorta di contraddizione in termini nell’idea stessa di frontiera come limite, perché è un luogo che separa e che unisce allo stesso tempo. Per questo la nozione di frontiera non si limita soltanto ad una linea tracciata su una carta geografica, ma può essere più o meno profonda, iscritta in un orizzonte più largo di confronto, più essere la condizione formale di una scoperta. Del resto, nel momento in cui la frontiera definisce un’idea di limite, contribuisce a costruire la figura del contrabbandiere. E sul piano letterario un contrabbandiere è colui che fa passare dei testi da una parte all’altra, dall’uno all’altro. La frontiera crea la necessità della traduzione.

Da questo punto di vista, lei si considera più un contrabbandiere, un viaggiatore o uno scrittore?
In lingua basca c’è una bella espressione per definire il contrabbando, lo chiamano «il lavoro della notte». E il mestiere dello scrittore assomiglia un po’ a questo: non solo il «lavorare la notte» come diceva Marcel Proust, ma il trasportare da un luogo all’altro, da un contesto all’altro dei racconti, delle storie, delle narrazioni. Il mio rapporto con il mondo arabo assomiglia ad esempio a questo. Scrivere in Europa di luoghi e personaggi che parlano di quella realtà, portandoli con me fino a qui. Non sono certo un passeur d’hommes, quanto piuttosto qualcuno che opera il contrabbando di storie e di idee.

È compiendo questo passaggio che nelle sue opere il viaggio diventa un’esperienza letteraria, portando con sé le tracce profonde di mondi lontani?
Credo che la letteratura ci consenta un’esperienza dei luoghi che incontriamo più radicale, articolata, lontana dai cliché. In questo senso i miei libri non costituiscono «un monumento», un ponte che tutti potrebbero attraversare in qualche modo, quanto piuttosto un insieme di domande, cogliere il piacere di scoprire l’«altro», di nutrire la propria conoscenza nei suoi confronti. Amo l’idea dell’esilio, della necessità di spostarsi, perfino la condizione dell’apostata. Mi piacciono quelli che non sono dove dovrebbero essere.

In questo percorso ci solo tappe che ritornano, luoghi reali, ma anche simbolici, sui quali ha scritto a più riprese e con accenti diversi. Uno di questi, che attraversa anche con l’«Ultimo discorso» è Beirut, «dal gusto di timo e copertoni bruciati».
Ciò che da sempre mi colpisce di più di Beirut è che malgrado sia una piccola città ne contiene in realtà moltissime altre al suo interno. È naturalmente un luogo di incontro, tra culture, religioni, lingue. Dal lato dell’islam ci sono sciiti e sunniti, per i cristiani, cattolici e ortodossi, poi c’è il confronto linguistico ancora vivo tra il francese e l’inglese, per non parlare ovviamente dell’arabo. Una città-mondo che è al tempo stesso una città presente un po’ ovunque nel mondo grazie alla diaspora libanese diffusa in tutti i continenti, dall’Europa all’America latina. È un grande porto del Mediterraneo ma in effetti passano di qui interessi, correnti e progetti che legano tra loro Africa, Europa e Americhe. Per questo la tragedia dell’esplosione che si è verificata nel porto di Beirut (il 4 agosto di quest’anno, ndr) ha anche un carattere simbolico: ha colpito il cuore di quel luogo delle differenze e dell’incontro che è la capitale libanese.

I suoi viaggi letterari costituiscono anche una riflessione sulla memoria delle società e delle culture. In quest’ultimo libro c’è un capitolo dal titolo «Schegge di Polonia» che ci riporta a Sobibór, Majdanek, nel ghetto di Cracovia per constatare l’amnesia di cui sembra soffrire il Paese dove «il luogo ha divorato tutti i luoghi, il nome ha sotterrato tutti i nomi».
Ho descritto l’estrema difficoltà a percepire le tracce di quanto avvenuto che sembra venir cancellato dallo spazio pubblico mentre anche i monumenti sono abbandonati a sé stessi. Come d’inverno la neve ricopre le statue nelle vie e nelle piazze della Polonia, la nostra memoria si copre di altri ricordi, facendoci scivolare passo dopo passo verso l’oblio. È questa la sensazione dolorosa che ho riportato dalla Polonia e che ho cercato di descrivere.

L’«Ultimo discorso» è una sorta di diario di viaggio, una raccolta di versi stesi lungo un itinerario che lega Barcellona al Mar Nero, passando per i Balcani, il Medio Oriente, la Russia. Come è nato il libro?
Volevo smarcare la poesia da un’immagine sentimentale, dall’idea che potesse raccontare solo qualcosa di «poetico» per metterla invece al servizio del viaggio, della descrizione di ciò che possiamo incontrare di fronte a noi ogni giorno, tappa dopo tappa. Nel testo ho raccolto un percorso di anni. L’approdo è nella città in cui vivo ora, Barcellona, ma ci si arriva attraversando territori dove domina la violenza, la guerra, l’incertezza o la scoperta. Un po’ come quando si torna da un viaggio e si ha voglia di raccontare agli amici quello che si è visto. Allo stesso tempo, e sono le pagine che concludono il libro, volevo riflettere su alcuni autori che come Proust, Onetti o Vásquez, pur non muovendosi dalla loro stanza, hanno creato dei luoghi indimenticabili mostrando tutto il potere della letteratura nel condurci lungo l’itinerario di un viaggio e all’incontro con l’«altro».