Raramente l’associazione tra parole e immagini sulla copertina di un libro ha funzionato così bene a sintetizzarne il contenuto come nell’ultimo romanzo di J. M. Coetzee: vi si vede un bambino di circa cinque anni con la faccia sovrastata da un paio di occhiali da sole troppo grandi per lui, le cui lenti riflettono barbagli di luce a forma di stella. Sulle spalle ha una mantella da mago, l’espressione è ostinata, come di chi ha appena piantato una grana. Sopra l’immagine, il titolo: L’infanzia di Gesù (Einaudi «Supercoralli», ottima traduzione di Maria Baiocchi, pp. 256, euro 20,00).

Definire ironici gli intenti di questa soglia di entrata al testo è quanto meno riduttivo, perché il romanzo di Coetzee guarda a molteplici orizzonti senza appiattirsi su nessuno di essi: bordeggia in alcune sue pagine i confini di una fiaba al tempo stesso iperrealista e straniante; fa balenare l’utopia di un mondo migliore ma evidenzia i caratteri distopici dell’istituzione totalitaria nella quale è ambientato; e termina come una parabola che ricomincerà da dove ha avuto fine e che non ha nulla da insegnare, perché non è niente altro se non il meraviglioso, stupefacente prodotto di una letteraria invenzione.

Provenienti dal campo di Belstar in un imprecisato deserto, un uomo di nome Simón e un bambino chiamato David approdano alla città di Novilla, e subito si dirigono al Centro di accoglienza perché venga loro assegnata una abitazione. C’è un’unica stanza libera ma l’impiegata non ne ha la chiave, perciò li manda dalla sorvegliante dell’edificio, che risulta inaspettatamente assente, dunque la ricerca viene rimandata al giorno dopo, quando superate alcune disavventure notturne e ovviate le défaillances della organizzazione in stile realismo socialista, scopriranno come la porta della stanza sia sempre stata aperta. È bastata questa breve peregrinazione nei labirinti di una anonima istituzione a far sì che, all’uscita del romanzo nei paesi di lingua inglese, la critica parlasse di atmosfere kafkiane; così come alcune sfasature di senso, incoraggiate dalle discrepanze fra le vicende del romanzo e il suo titolo, hanno autorizzato a invocare l’esempio di Beckett. E, naturalmente, né Huxley né Orwell sono mancati all’appello delle fonti; persino Cormac McCarthy è stato nominato fra gli ispiratori del libro, solo perché nella Strada ha messo in scena un padre e un figlio, peraltro inquadrandoli in una cornice apocalittica che qui, fra le pagine dell’Infanzia di Gesù, è del tutto assente. Di certo, dopo essersi già abbastanza divertito a sigillare con quel titolo le molte simbologie seminate nel suo romanzo, Coetzee avrà goduto nel vagliarne le interpretazioni.

Dunque, per Simón e per David, che non sono padre e figlio, è cominciata una nuova vita: si sono conosciuti sulla nave con la quale sono arrivati a Novilla, il bambino aveva con sé un biglietto legato con una cordicella al collo, che è probabile dicesse qualcosa circa i suoi genitori, ma la corda si è spezzata e il biglietto è andato perso. Da allora Simón ha una missione, trovare la madre di David. Sa che, pur non avendola mai vista, la riconoscerà perché qualcosa nel suo animo si smuoverà a avvertirlo, o forse sarà il bambino a trovarla. Chiedono di venire aiutati dal Centro di accoglienza ma subito apprendono di stare andando contro corrente: a Novilla il passato non è gradito, tutti hanno fatto piazza pulita dei loro ricordi e ritengono disdicevole indugiare nei legami sentimentali. Al campo di Belstar hanno imparato a tappe forzate lo spagnolo, soprattutto Simón si esprime a fatica, e nella nuova città non c’è nemmeno la radio a aiutarli: nessuno sente il bisogno di ricevere notizie, notizie di cosa?

Tutti sembrano calati così profondamente nel loro destino da rendere inutile qualsiasi domanda, accettano la vita come viene e anche la loro mancanza di ironia testimonia l’impossibilità di prendere una qualche distanza dalle cose. Simón conosce la donna del Centro di accoglienza, che a suo modo si dimostra gentile, poi – una volta che si saranno trasferiti nel piccolo appartamento del Blocco Est dove hanno trovato sistemazione – fa amicizia con Elena, la madre dell’unico amico di David; ma entrambe le donne non corrispondono il calore che Simón vorrebbe condividere, affermano di non avere emozioni, di essersi lasciate alle spalle i vecchi affetti. Tutti, peraltro, sono gentili e cordiali, soprattutto gli scaricatori del porto dove Simón trova lavoro, persone accoglienti che lo sostengono e gli dimostrano amicizia, uomini semplici e al tempo stesso coltivati, iscritti a corsi di filosofia che seguono la sera all’Istituto, dove si svolge ogni attività ricreativa, tutto rigorosamente gratis. I personaggi che Coetzee mette in scena hanno ognuno una sua diversa consistenza e una voce convincente, ma la loro funzione narrativa è soprattutto quella di allestire un contraddittorio con il protagonista, a volte portando la luce della ragione nelle sue pretese deliranti, altre volte incarnando quella totale assenza di pensiero critico che deriva da una perfetta, appagata aderenza alla istituzione totale in cui vivono e in cui si consuma la desublimazione repressiva dei loro desideri.

Simón, invece, è una coscienza infelice: non si vuole staccare dai suoi ricordi, benché non li evochi mai, non intende abdicare agli affetti, e pone ai suoi compagni di lavoro questioni di buon senso che non coincidono con il senso comune vigente a Novilla. Per esempio, chiede perché debbano sfiancarsi a scaricare sacchi pesantissimi di grano quando una gru potrebbe risolvere il problema, e perché debbano immagazzinare derrate eccedenti per poi vederle andare in pasto ai ratti. Semina il dubbio e raccoglierà i suoi frutti. Ma tanto è raziocinante quando si tratta di gestire la vita di tutti i giorni, tanto diventa illogico quando pretende di avere individuato la madre di David. La vede, un giorno, al di là della rete che circonda un campo da tennis nella lussuosa Residencia fuori città: lei sta giocando con con due uomini, i suoi fratelli, che la chiamano Inés. Simón sente smuoversi qualcosa nel suo animo, interroga il bambino, quello scuote la testa. Non importa, è deciso, la donna oltre la rete è la madre di David, deve esserlo, lui lo ha sentito, ora non resta che raggiungerla e dirle qualcosa come: tu, tu sei la pianta. Echi rilkiani risuonano discreti nella prosaicità di questa annunciazione laica che, mai, nemmeno da lontano sfiora il grottesco, benché metta in scena, a volte, situazioni parossistiche. Inés, accetta di essere la madre del bambino, così, per capriccio. È una donna ottusa e viziata, la sua frigidità verginale la rende ben lontana dall’impersonare la grazia di una madonna, ma la sorte le ha mandato in dono un bambino e lei lo adorerà.

Sotto la sua tutela David regredisce rapidamente, e mentre Simón si ritira sullo sfondo struggendosi di nostalgia per il bambino ma al tempo stesso aderendo alle inesistenti ragioni di Inés che non lo può soffrire, tutti intorno a lui cercano di mostrargli la mistica follia del suo gesto, che pretende di obbedire a una chiamata senza echi in questo mondo.
Buona parte del romanzo si risolve in dialoghi, ora Simón incarna la ragione, ora la fede nel suo istinto: quando si riavvicina al bambino è lucidamente impegnato a raddrizzare le storture che la sua novella madre gli ha inculcato, quando dialoga con gli amici sbanda nel non senso e lo difende accampando certezze consolidate nel suo cuore. Senza mai mettere in discussione la maternità della donna cui ha consegnato il bambino, imparerà tuttavia a metterne a fuoco la pochezza, e pur restandole a fianco si distanzierà da lei, che nel frattempo ha ridotto David al ruolo di un piccolo tiranno.
La capacità di adesione di Coetzee alla mentalità del bambino, la abilità con cui rende i suoi capricci, i suoi voltafaccia, la malizia dell’abiura che scaglia contro Simón e Inés smentendone all’occorrenza il ruolo di padre e di madre, e anche le fugaci coincidenze delle sue parole con quelle di Gesù, la sua smania di portare tutti con sé, la sua arrogante pretesa di coincidere con la verità, tutto concorre a disegnare il profilo magistrale di un personaggio indimenticabile. Neanche per un secondo, in questo romanzo, si prova quello sgradevole brivido di inopportunità suscitato da tante messe in scena modernizzanti di testi classici. E, del resto, questa storia non riproduce affatto l’infanzia di Gesù, e anche l’annunciazione avviene a cose fatte: quando la madre pronuncia il suo fiat il bambino è già lì.

Districarsi nelle simbologie di questo romanzo, che sono numerose, non è difficile e nonostante ciò che se ne è detto, la sua enigmaticità è alla fin fine molto minore di quella alla quale il miglior Coetzee, quello di Aspettando i barbari, ci aveva abituato. Qui, in compenso, lo scrittore sudafricano si è patentemente divertito: ha impegnato gli scaricatori del porto in disquisizioni filosofiche sulla cosità delle cose, ha introdotto uno squarcio scatalogico facendo improvvisare a Simón il ruolo di idraulico ingaggiato dalla cinica Inés nello sturamento del suo cesso; ha assegnato la parte del diavolo tentatore a un giovane tamarro teppistello, che seduce Inés e il bambino per il gusto di portare zizzania in famiglia. Ma sono anche molte le pagine in cui la bravura di Coetzee si applica alla descrizione di scene commoventi, e quelle in cui imbastisce articolati combattimenti in forma di dialogo tra ciò che discende dal logos e ciò che viene dall’istinto, o tra ciò che si pretende reale e ciò che si vuole apparente: sempre in perfetto equilibrio, guardandosi bene dal tendere una mano al lettore per farlo pendere verso una delle opzioni in campo.