Stoccolma, ottobre 1945: l’Accademia di Svezia assegna il Nobel della Letteratura, il primo dopo la fine della guerra, e la scelta cade su una scrittrice cilena di cinquantasei anni, Lucila Godoy Alcayaga, conosciuta con il nome di Gabriela Mistral. La motivazione sottolinea la qualità della sua poesia lirica, «che ha fatto del suo nome un simbolo delle aspirazioni idealistiche dell’intero mondo latinoamericano». All’epoca, Mistral aveva pubblicato solo tre raccolte, e la sua fama in vita andò decrescendo nei decenni successivi. Ci dà la possibilità di tornare a ragionare sulla sua poesia una bella raccolta uscita nella collana Capoversi di Bompiani, Sillabe di fuoco (cura e traduzione di Matteo Lefèvre, con uno scritto di Octavio Paz, pp. 345 €18,00).

A una prima lettura i testi di Mistral sembrano datati, fuori tempo, lontani dal gusto novecentesco, e forse non potrebbe essere altrimenti per una autrice che aveva scelto di firmarsi con un nome dove Gabriele D’Annunzio si unisce a Fréderic Mistral. L’incredibile gloria raggiunta in vita sembra averla poi ingessata nei monumenti sparsi in suo onore per il continente americano, e solo la critica più attenta si è di nuovo avvicinata a lei in tempi recenti. Mistral era partita dal remoto Valle de Elqui, per arrivare al mondo intero: dopo aver scritto i Sonetos de la muerte (1914), attese otto anni per vedere pubblicata la sua prima raccolta a New York; nel 1923 venne invitata dal governo rivoluzionario messicano per contribuire alla nuova politica educativa per le donne con un progetto che aveva elaborato, quasi da autodidatta, grazie all’esperienza come insegnante nelle più lontane e disagiate scuole del Cile. Da qui il suo ininterrotto peregrinare tra i continenti, da Parigi alla Spagna repubblicana, dal Brasile agli Stati Uniti, dove nel 1957 avrebbe terminato la sua vita accanto alla compagna Dana, conosciuta dieci anni prima.

Sillabe di fuoco consegna oggi al lettore il quadro completo di un’opera complessa e segnata da una serie di costanti. L’iniziale distacco dal Modernismo ispanico e dalla insistita tendenza alla metaforizzazione delle Avanguardie, per esempio, è già presente in Desolación (1922), dove emerge anche quell’ostinata attenzione alla materialità degli oggetti e dei paesaggi nata, come dirà Neruda, dalla «dominante influenza della nostra geologia, dalla nostra configurazione vulcanica, turbolenta e oceanica».

Questa scelta, a cui resterà fedele tutta la vita (da qui l’impressione di una certa ripetitività nei temi e nei motivi formali), Mistral la radicherà nella più profonda tradizione della lingua spagnola – dai mistici cinquecenteschi alla poesia popolare cilena – in una religiosità dolente che meriterebbe una rilettura alla luce di teologie e tendenze contemporanee. Neruda aveva parlato dei suoi versi come «torbido miele», in cui trovava rappresentazione la «emisferica solitudine» dei poeti cileni, «protagonisti semisolitari, disorientati, di vasti terreni coltivati da poco, di raggruppamenti semicoloniali, assordati dalla terribile vitalità della nostra natura dall’antico isolamento a cui ci condannano le metropoli di ieri e di oggi».