Si spostava beatamente tra le isole dell’Oceano Indiano e le spiagge bianchissime di Dubai. Incurante di una condanna definitiva a 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, unita all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Ma la latitanza dorata di Amedeo Matacena ha avuto fine al terminal arrivi dell’aeroporto di Dubai, rintracciato e acciuffato dai carabinieri, reduce da una breve vacanza alle Seychelles.
Amedeo Matacena junior, figlio del patriarca di Reggio Calabria, il padrone dei traghetti Caronte che fanno la spola tra Calabria e Sicilia, ex parlamentare di Forza Italia negli anni Novanta, considerato in quegli anni il nuovo politico di riferimento della ‘ndrangheta. Dal suo seggio alla Camera, Matacena non aveva perso occasione per scagliarsi contro «il colonialismo giudiziario» dei magistrati di Reggio (in testa, il procuratore aggiunto Salvatore Boemi) che per fare carriera «perseguitavano una schiera di calabresi per bene», tra cui lui, of course. Sul campo, Matacena era stato sostenuto da Giuseppe Aquila, ex barista sui traghetti di famiglia, poi fulminato dalla passione politica, sceso in campo con Forza Italia, e dal 1997 vicepresidente della provincia di Reggio. Il 1 settembre 1998 Aquila è stato arrestato, con l’accusa di concorso in omicidio: nel 1991, nel corso della guerra di mafia a Reggio, avrebbe sostenuto le famiglie di uno dei due fronti in lotta a colpi di kalashnikov.
Immediatamente sono state avviate le procedure per la consegna di Matacena alla giustizia in Italia, dove sul suo capo pende come detto la sentenza della Cassazione che nel giugno scorso l’ha condannato per aver favorito la cosca Rosmini. Un verdetto giunto al termine di un complesso iter giudiziario durato oltre dodici anni anni. Coinvolto nella maxi-inchiesta Olimpia che ha disvelato il ruolo della città come laboratorio di oscure trame e connivenze fra ’ndrangheta, massoneria, eversione nera e pezzi dello Stato. Nelle durissime motivazioni, depositate il 14 agosto, i giudici sottolineavano: «Evidentemente non si può stringere un accordo con una struttura mafiosa, se non avendo piena consapevolezza della sua esistenza e del suo modus operandi. Tanto basta per ritenere che Matacena ben sapesse di aver favorito la cosca dei Rosmini (e tanto lo sapeva da aver preteso la esenzione dal pizzo)». A decidere di appoggiare Matacena erano stati i vertici assoluti della cosca nei cui confronti l’ex deputato «era in grado di vantare un credito tale che non solo lo avevano esentato dal pagamento del ’pizzo’ relativo ai lavori che si stavano eseguendo in via Marina di Reggio Calabria, ma addirittura avevano corrisposto – di tasca propria – alle altre cosche consorziate la quota da imputare al Matacena».
A inchiodarlo – si ricorda in sentenza – le parole del pentito Umberto Munaò, per il quale sarebbe stato lo stesso boss Antonio Rosmini a confessare: «Non possiamo insistere perché a noi ci ha sempre favorito, a noi ci favorisce, ci aiuta se abbiamo bisogno, non possiamo forzarlo a darci i soldi, cerchiamo di farli uscire in modo diverso».
Per i giudici si tratta di «indizi gravi, precisi e concordanti della serietà e concretezza degli impegni assunti dall’imputato nei confronti del sodalizio criminale per ottenere la sua elezione alla Camera dei deputati nelle elezioni del 1994». Elementi divenuti prove a carico hanno pesato sul destino processuale di Matacena insieme a un’altra vicenda: la folgorante carriera di Giuseppe Aquila, uomo di fiducia dell’ex parlamentare, proiettato dal ruolo di manovale a bordo dei traghetti Caronte ai comodi uffici della giunta provinciale che era arrivato a presiedere. «Aquila invero – scrivono i giudici – era uomo che faceva parte della famiglia (di sangue e mafiosa) dei Rosmini. E certamente nel circolo criminali del circondario la circostanza non poteva essere ignorata».
La fuga di Matacena è durata quasi tre mesi. A lui rimane un ultimo asso nella manica. Che in molti giurano sia disposto a sfilare e mettere sul tavolo: la richiesta di asilo politico agli Emirati Arabi Uniti.