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Mastrella e Rezza, Hybris, alieni tra due mondi

Mastrella e Rezza, Hybris, alieni  tra due mondi

Intervista Al Festival dei Due Mondi di Spoleto, fino al 10 luglio, il debutto del nuovo spettacolo, «Hybris»; a Palazzo Collicola, fino al 25 settembre, a cura di Flavia Mastrella e Marco Tonelli, si può visitare la mostra antologica «Euforia Carogna», una ricognizione dedicata ai 35 anni di lavoro del duo teatrale

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 9 luglio 2022

Flavia Mastrella e Antonio Rezza appaiono come due alieni della cultura italiana contemporanea, in azione tra due mondi sempre in collisione tra loro: quello delle arti plastiche e quello del teatro.
Quest’anno, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, dal 7 al 10 luglio, ci sarà il debutto del loro nuovo spettacolo, Hybris, coprodotto dal duo, La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello e dal Teatro di Sardegna. Inoltre, al Palazzo Collicola, fino al 25 settembre, a cura di Flavia Mastrella e Marco Tonelli, si può già ammirare la mostra antologica Euforia Carogna, una ricognizione dedicata al lavoro di 35 anni dei due, resa possibile anche grazie al contributo del festival della città umbra e della Sardegna Film Commission e del Teatro Vascello.

Abbiamo raggiunto Mastrella e Rezza al telefono per parlare di questi nuovi progetti.
Hybris. Come mai questo titolo?
Rezza: Il titolo è venuto l’ultimo giorno perché i titoli vengono l’ultimo giorno. La pronuncia corretta tende alla «u» ma il suono, una volta pronunciato, mi è sempre sembrato finto. Questo perché, ovviamente, il greco non è la nostra lingua. Io lo pronuncio allora in un modo scorretto, con la «i», perché pronunciandolo in modo corretto mi sento finto io.

Cosa c’è in scena?
Mastrella: È una scena ridotta visto come ci hanno ridotti. In questi anni di pandemia mi sono trovata senza riferimenti e sai, io racconto quello che vivo. E ho vissuto un momento in cui ho visto che il senso delle cose che faccio è venuto meno. In scena c’è una porta, che ha perso il suo significato. E poi si vede un trasportino, ma per uomo. Il resto è tutto molto «ospedaliero».
Rezza: Io ho avuto questa porta in mano per 4, 5 anni. Lo spettacolo però è sempre stato rimandato per motivi vari. Doveva debuttare nel 2018, ma c’è stata la Biennale. Poi nel 2019, visto che la città di Nettuno ci ha in modo indegno allontanato dai nostri luoghi di lavoro, non si è fatto. Poi nel 2020 c’è stata la pandemia, protrattasi anche nel 2021. E quindi arriviamo ad oggi.
Ora, il progetto è mutato negli anni, ma la porta rimane sempre l’elemento principale. Una porta messa in mano a me è come una pistola in mano a Clint Eastwood. Ma non è a rotelle. È una porta molto pesante che io, sulla scena, sposto fisicamente. La sua pesantezza si lega al rumore che fa quando la si sbatte. Avremmo potuto trovarne una più leggera, certo, ma questa, poi, non avrebbe fatto lo stesso suono.

Quindi abbiamo un trasportino, una porta, poi Antonio Rezza che porta questa porta. Ci sono però altri corpi in scena, no?
Rezza: Ci sono Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia. Poi c’è Maria Grazia Sughi, un’attrice importante che fa «mia madre» nello spettacolo (mia madre senza placenta). E poi ci sono Daniele Cavaioli e Antonella Rizzo. Quella di fare uno spettacolo con più persone non è stata una scelta. Abbiamo iniziato con queste persone e quindi abbiamo deciso di finire con queste persone. È poi anche una cosa spavalda da parte nostra, visto che non prendiamo soldi pubblici e vogliamo fare uno spettacolo con otto attori in scena, un’opera completamente diversa da quanto fatto prima, così come ogni nostra opera. Questo perché tradire noi stessi è il nostro primo obiettivo. A questo proposito posso anche dire che non sono più performer da quando ho visto che ci sono persone di dubbio gusto che si piazzano davanti ad un microfono a leggere. Quindi io sono Antonio Rezza nell’esercizio delle mie funzioni, perché il termine performer è stato abusato e se ne appropria anche chi non ne ha alcun diritto.

Come già accennato da Flavia, immagino si possa parlare di una certa influenza del periodo di pandemia nello spettacolo…
Rezza: In un Paese che tollera in modo ipocrita le minoranze – che queste vadano sempre tutelate sono d’accordo anch’io – quello che è stato fatto ad una minoranza che ha avuto paura di vaccinarsi è vergognoso. Come altri, io sono stato trattato come un appestato, solo perché ho avuto paura di qualcosa che non mi dà fiducia. Senza per questo aver detto una parola contro chi si è vaccinato. Anzi. Non li ho mai sconsigliati. Sono circondato da persone che si sono vaccinate. E però il corpo è mio e lo gestisco io. Va da sé allora che in questo spettacolo ci sia una certa attitudine all’isolamento. Non in senso banalmente fisico, ma proprio perché non puoi stare con gli altri. Più non rappresenti un numero, più non rappresenti una quantità e più verrai sempre ghettizzato. Ma io non lo accetto perché almeno sul mio corpo decido io.

Parliamo ora della mostra antologica. Perché Euforia Carogna?
Mastrella: Per il titolo abbiamo fatto una ricerca di parole. Ed in effetti, di base, ci frega l’euforia. Perché noi, con questo trasporto che abbiamo per fare le cose, alla fine facciamo tutto e siamo distrutti. Ma meno male che c’è il pubblico, la nostra unica ragione di vita. Ma quando parlo di pubblico, parlo di coloro che riescono a fruire delle cose senza influenze preconcette.
Quanto alla «carogna», per me, non si tratta tanto dell’oggetto in putrefazione. Carogna come cosa che, in modo diverso dall’euforia, ti frega comunque.
Rezza: A me il termine carogna piace perché ha a che fare con il corpo morto. La carogna è qualche cosa che precede o è contemporanea alla decomposizione.

Come è strutturata l’esposizione? Potete dirci qualcosa?
Mastrella: È stato uno degli allestimenti più difficili che ho realizzato finora. La mostra è a Palazzo Collicola di Spoleto, sul piano nobile, uno spazio che ha un arredamento completamente denso, pieno di carte da parati, mobili barocchi. Insomma: un qualcosa di veramente difficile da trattare.
Provo a farti una sintesi. Entrando per le scale, c’è una grande fotografia con Antonio e me in una giornata di vento. Giunte al piano, le persone trovano altre gigantografie. Una è una «foto votiva» di quando c’era ancora la «divina provvidenza» (la ex sede a Nettuno). Sai, facevamo foto votive, cioè d’indagine sull’oggetto. Quella in questione è stata fatta per Fratto X. Poi si trova una gigantografia di Anelante, con tutti gli attori. In seguito, si entra nella sala grande e si trova l’allestimento di Fotofinish, poi riproposto come scultura con Il microcosmo. Si va avanti e ci sono I Visi…Goti. Poi in un’altra stanza ci sono altre fotografie come, per esempio, quelle del Cristo di Antonio e un mio collage degli anni 90. Proseguendo, i visitatori trovano i Disegni con la luce. Sono realizzati con una macchina fotografica digitale e sono il lavoro di auto condizionamento estetico per arrivare a concepire nuove forme e quindi arrivare ad elaborare l’habitat di Fratto X. Dopo questo posso citare, per esempio, EXPLò, una scultura in stoffa e PVC. Una «scultura d’asporto» che racconta la nostalgia della materia pesante: la pieghi e te la porti dove ti pare. Entra in auto, nella valigia, eccetera. Poi, per continuare, ci sono sale che ospitano opere come i Quadri di scena e Il libro a rotelle (una stampa di dimensioni importanti di Non cogito ergo digito). Poi c’è Encefalon, dove si hanno le carte da giogo di Antonio, ma ingigantite. Continuando, posso dirti che non manca una saletta video, dove si vedono i nostri lavori realizzati nel tempo: piccoli interventi di minutaggio contenuto, cose nostre e interventi di fotografi, videomaker e montatori che raccontano di noi. In un’altra sala si trova pure un altro allestimento, video e audio: Il pianto del Centauro di Antonio. Alla fine, c’è l’habitat de L’esaltazione dell’insignificante. Nella galleria lunga sedici metri, le micro-sculture sono realizzate col criterio compositivo del mare e mi hanno dato l’ispirazione per l’habitat di Bahamut.
Rezza: È davvero emozionante sapere che un palazzo come Palazzo Collicola ospita, in 17, 18 stanze gigantesche, una parte consistente del nostro lavoro di 35 anni. Ringraziamo Marco Tonelli.

È stato possibile realizzare la mostra grazie al contributo all’allestimento di Ezio Novara al montaggio audiovisivi Barbara Faonio. le foto sono di Martina Villiger, Stefania Saltarelli, Ivan Talarico, Giulio Mazzi, Annalisa Gonnella.

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