«Nascoste nelle profondità dei monti, nelle regioni più interne o su isole solitarie, dunque in zone impervie, ci sono le hito, le «terme segrete». (…) terme situate in posti tagliati fuori dai percorsi turistici classici, che possono essere raggiunti solo a piedi». È questo un passaggio tratto da Viaggio nel Giappone sconosciuto, di Massimo Soumaré (Edizioni Lindau, 2021), che ben simboleggia l’approccio che lo scrittore e traduttore torinese ha adottato in questo suo nuovo libro. Accompagnare il lettore cioè, lungo i percorsi meno battuti del Sol Levante, un’esplorazione che è allo stesso tempo storica, una sorta di genealogia degli argomenti trattati con cui Soumaré ritorna indietro nel tempo, sfatando molte assunzioni e luoghi comuni che sia i non giapponesi che i giapponesi stessi hanno dell’arcipelago, ma che fornisce anche una multiforme cartografia del tempo presente. Nelle pagine del volume viene sapientemente mostrato come i processi ed i mutamenti storici che avvengono in tutti gli angoli dell’arcipelago continuino a dare forma al momento presente delle arti, delle usanze e tradizioni, nonché della cultura pop.

Il volume si compone di sei capitoli dedicati ad altrettanti argomenti, si parte con il dualismo centri urbani-campagna/provincia. Quando si pensa al Giappone si intende e si immagina molto spesso la metropoli di Tokyo o gli altri grandi agglomerati urbani, ma in realtà anche le zone rurali o meno abitate hanno da sempre contribuito alle arti ed alla cultura del paese. Si pensi ad esempio al teatro kabuki, che fra le sue varianti conta i noson kabuki (« kabuki dei villaggi») o jikabuki (« kabuki regionali»), spettacoli teatrali realizzati nella provincia da attori non professionisti. In qualche modo legato alle zone di campagna o più selvagge è la gloriosa tradizione della narrativa fantastica e del folklore tradizionale, il secondo argomento trattato. Senza le innumerevoli leggende e opere scritte o tramandate nel corso dei secoli, non esisterebbe la letteratura giapponese come la conosciamo oggi, senza parlare del cinema, dei manga e dell’animazione.

Nel terzo capitolo Soumarè ci porta, attraverso una cavalcata attraverso i secoli, alla scoperta dei guerrieri giapponesi e di come la loro figura si sia evoluta ed adattata nel corso di millenni. Scopriamo, fra le altre cose, come una vera e propria propaganda sia stata messa in moto, durante lo shogunato Tokugawa, per convincere gli stessi giapponesi e gli altri paesi della quasi invincibilità dei samurai, una narrazione che è però molto lontana dalla realtà storica. Dall’altro lato, nelle pieghe della macrostoria è stata spesso omessa l’importanza delle figure femminili, la società giapponese durante i periodi Jomon e Yayoi era matriarcale e inizia a trasformarsi in patriarcale solo nei periodi posteriori per effetto di un’influenza culturale proveniente dalla Cina.

Esempi di eccellenza femminile sono la normalità e non l’eccezione, a fondare il teatro kabuki, ad esempio, è stata proprio una donna, Okuni, e il grande artista Hokusai Katsushika, almeno nell’ultima parte della sua carriera, deve molto del suo successo alla figlia Oi che dipinse o aiutò a realizzare molte delle famose opere del padre. Se al giorno d’oggi, la società giapponese si può definire maschilista, è quindi bene sapere che non è sempre stato così, e che dietro alla parola «tradizione» si nasconde spesso solo una forma che perdura nel tempo, ma non l’unica possibile. Lo stesso approccio che rivela i vari e multiformi rivoli che formano un evento, che di solito si crede unico, viene usato anche negli ultimi due capitoli, quello dedicato alla spiritualità, multiforme e sincretica, e alla cucina. Argomenti che sembrerebbero molto distanti fra loro ma che rivelano invece come la forma attuale sia il risultato di stratificazioni e influenze esterne avvenute nel corso di secoli, quando non millenni.

Si ricordi qui almeno come prima dell’introduzione del buddismo in Giappone non si parlava di shintoismo come unico blocco, ma esistevano piuttosto una miriade di pratiche sacre e spirituali legate al territorio, e riguardo alla cucina, come nell’arcipelago durante l’antichità si mangiasse molta carne, fino al 675 d. C., quando l’imperatore Tenmu ne limitò il consumo con una legge.

Matteo Boscarol

Divulgare, raccontare, approfondire: l’intervista all’autore
di Gianluca Pulsoni

Viaggio nel Giappone sconosciuto (Lindau, 2021) è un libro che, in sei capitoli, presenta al lettore sei aspetti chiave, tra loro connessi, della cultura giapponese (le bambole, il sovrannaturale, i guerrieri, le donne, la spiritualità, la cucina). Grazie al suo non essere identificabile né come giornalistico né come accademico, il discorso riesce a coniugare divulgazione, racconto, e approfondimento in maniera esaustiva. Abbiamo incontrato l’autore, Massimo Soumaré, per porgli alcune domande.

Come hai scelto gli argomenti di ogni capitolo?
Li ho scelti sulla base di due criteri. Sui temi di conferenze che ho tenuto nel corso degli anni e su degli argomenti in parte conosciuti ai lettori italiani, così che fosse più semplice avvicinarsi al testo e, al contempo, comprenderne la profondità.

Perché questi, e non altri, rappresenterebbero punti d’accesso ideali verso un Giappone «sconosciuto»?
In verità se ne sarebbero potuti scegliere anche altri. Infatti, nel progetto iniziale all’editore, che devo ringraziare per avermi lasciato del tutto campo libero nella stesura del libro, avevo proposto otto capitoli. In seguito, discutendone, abbiamo deciso di comune accordo di ridurli a sei. Questo per dare maggiore spazio agli argomenti trattati. L’importante dal mio punto di vista è stato il cercare di rendere evidente che molto di ciò che conosciamo del Giappone non nasce dal nulla, ma è, invece, frutto di uno sviluppo connesso a vari fattori come la situazione politica, sociale ed economica delle varie epoche. Avere un’idea chiara di questi cambiamenti rende più semplice comprendere molti aspetti anche del Sol Levante contemporaneo.

Usi molto un approccio da storico della cultura, e provi a smontare certi possibili stereotipi sulla cultura giapponese che, da noi, sembrano circolare. In generale, quali altri stereotipi sulla cultura giapponese che abbiamo in Italia ci sono ancora da smontare?
Esatto. Nei sei capitoli si segue a grandi linee la storia degli argomenti trattati lungo un arco di tempo che va all’incirca dal Periodo Yayoi (X secolo a. C.-III secolo d.C.) fino ai primi anni del Novecento. Il proposito del libro è di mostrare come l’artigianato, le arti, la religione, la cultura e il pensiero stesso nipponici sono stati il frutto di creazioni continue, non prive d’influenze continentali, strettamente intrecciate tra loro. Non per nulla si trovano molti riferimenti che uniscono i vari capitoli.

L’Italia ha una storia molto lunga di rapporti con il Giappone, a partire dal Cipango di Il Milione di Marco Polo. Tra il 1896 e il 1898 Pietro Mascagni ha composto l’opera Iris impregnata di esotismo giapponese. Persino Emilio Salgari ha scritto un romanzo d’ispirazione nipponica, L’eroina di Port Arthur, ambientato durante la guerra russo-giapponese del 1904-5 quando il conflitto non era ancora terminato, tanto era allora l’interesse in Italia nei confronti del Sol Levante.

Lo stereotipo più grande, che non è ancora cambiato dai tempi di Marco Polo nonostante oggi sia possibile ottenere anche grazie a internet molte informazioni, è il continuare a considerare il Giappone come un paese idealizzato, quasi un «paradiso» pieno di stravaganti curiosità.
Esiste, pertanto, un Giappone immaginario molto amato dagli occidentali e un Giappone reale, certo con i suoi pregi e difetti, che resta ancora conosciuto da pochi e che, al contrario, è opportuno scoprire.