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Massimo Piersanti, quella scena artistica romana

Massimo Piersanti, quella scena artistica romanaMassimo Piersanti, Graziella Lonardi Buontempo a Presenza Italiana, Palazzo Taverna, 1971

Intervista Un incontro con il fotografo, autore di un prezioso archivio di scatti

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 6 febbraio 2021

«Vorrei fare di più il fotografo – afferma Massimo Piersanti (Roma 1939) – ma sono costretto a stare al computer per occuparmi del mio archivio». Un archivio messo su in cinquant’anni d’attività che conta circa venticinquemila tra negativi e positivi. Molte delle immagini degli Incontri internazionali d’arte, con cui Piersanti ha collaborato fin dalla nascita nel 1970, sono confluite nell’archivio del Maxxi di Roma e alcune sono state anche utilizzate per la realizzazione del documentario La Rivoluzione siamo Noi (Arte in Italia 1967/1977), diretto da Ilaria Freccia.

Ma il progetto più ambizioso è quello della Biblioteca Hertziana / Istituto Max Planck, che lo ha coinvolto per un racconto sulla scena artistica romana, prevedendo incontri e la digitalizzazione del suo archivio. In fondo, però, il suo tempo per fotografare Massimo Piersanti riesce comunque a ritagliarselo. Nell’estate 2020, insieme a Giuseppe Garrera e Sebastiano Triulzi, ha iniziato un lavoro sui luoghi pasoliniani per un volume che conterrà anche poesie e scritti. «Pasolini non l’ho mai fotografato – afferma – L’ho conosciuto in maniera superficiale perché non veniva spesso a Palazzo Taverna, nonostante fosse legato ad Alberto Moravia che era il presidente degli Incontri internazionali d’arte. Alberto, invece, era spesso presente. C’era anche quando ci fu l’incontro con Andy Warhol. In modo velato aveva dato all’artista americano del cinico e… detto da Moravia!»

Il cinema e Welles
Dal 1953, quando durante una vacanza natalizia a Ravello ricevette in dono la sua prima macchina fotografica, Piersanti non ha più smesso di fotografare. In quell’occasione conobbe Orson Welles, «un personaggio fantastico, ricordo che ci faceva il teatrino delle marionette. Immagini? Proprio lui, in albergo, nelle giornate brutte ci faceva gli spettacoli. Avevo 14 anni e non sapevo neanche chi fosse!».

Suo padre era un industriale con l’azienda a Pagani, mentre la madre era una bellissima giovane berlinese che avrebbe fatto l’attrice se, a Roma, non avesse conosciuto il futuro marito che, gelosissimo, fece sparire il film per cui era stata chiamata a Cinecittà. Nel ’52 la famiglia si trasferì a Napoli. Massimo venne mandato a Neuchâtel in Svizzera per la scuola di commercio e, dopo un po’, si spostò a Londra per imparare l’inglese. «Ma la mia fidanzatina di allora rimase incinta, non avevo neanche vent’anni, a quel punto dovevo essere responsabile. Tornai a casa e andai a lavorare nell’industria di mio padre e dei miei zii dove si faceva di tutto, dalla marmellata alle pesche sciroppate, ma l’eccellenza erano i pomodori San Marzano. La marca Arlecchino era molto conosciuta e, anni dopo, scoprii che perfino Pino Pascali aveva fatto per noi una pubblicità con la casa di produzione Lodolo».

Per diverso tempo, finché la società non fu venduta, visse a Napoli con la prima moglie e il figlio, lavorando in fabbrica con orari estenuanti. Tornò a Roma nel 1967: aveva 28 anni, un po’ di denaro e quella passione per la fotografia che gli avrebbe offerto nuove possibilità professionali.

A fotografare ha imparato da autodidatta. «Ero pignolo, mi sono messo a leggere tutti i libri sullo sviluppo, il colore, il contrasto, le tecniche. Ho lavorato molto anche con il banco ottico e lì ci vuole una grande precisione. Tra i fotografi italiani avevo una preferenza per Piergiorgio Branzi, che ha proposto una immagine più sgranata e movimentata. Ma è soprattutto William Klein che ho amato. Fu una sberla vedere le sue foto. Ciò mi ha portato a cercare i giapponesi, Daido Moriyama e la rivista Provoke di cui uscirono solo tre numeri tra il 1968 e il ’69».

Massimo Piersanti, Alighiero Boetti a Palazzo Taverna, 1971

 

Libreria Bocca
All’inizio si è occupato di cinema e architettura, passando subito dopo alla fotografia pubblicitaria. Realizzava importanti campagne per clienti come l’Alitalia che gli avevano commissionato il volume Italia: un ritratto non autorizzato. Feste popolari dell’Italia: da Bagolino a Gubbio a Bajardo (1975) con il testo di Franco Ferrarotti. Centosessanta pagine a colori dedicate a celebrazioni e rituali, «però i Battenti di Guardia San Framondi non li hanno voluti perché c’era troppo sangue». La sua è una fotografia controllata che – come afferma consapevole – «è sempre la mia visione, non la verità».

All’epoca, abitava in via di San Giacomo a due passi da piazza di Spagna dove c’era la leggendaria libreria Bocca frequentata da scrittori, artisti e intellettuali. Era diventato amico del giovane critico Bruno Corà che si occupava delle vendite (come pure il poeta Elio Pecora, che ricorda quell’esperienza nel memoir Il libro degli amici). Corà, che sapeva del suo interesse, gli mostrava i libri di fotografia appena usciti, dato che Piersanti non se li poteva comprare. Fu proprio lui che un giorno gli disse: «perché non vai a fare qualche scatto a Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-1970 a Palazzo delle Esposizioni?».

«La mostra – spiega Piersanti – era già iniziata ma conobbi tutti, il curatore Achille Bonito Oliva, Graziella Lonardi Buontempo, fondatrice degli Incontri Internazionali d’arte e organizzatrice della rassegna. C’era anche Ugo Mulas che era il fotografo di riferimento, ma già non stava bene. Facemmo lunghe chiacchierate, Mulas fu molto gentile. Naturalmente, avevo visto il suo libro New York: The New Art Scene (1967) che fu una lezione per tutti noi fotografi. Graziella mi chiese di farle dei ritratti sopra gli ondulati metallici di Alviani. Mi incuriosiva molto quel mondo. Nel 1971, poi, andai a mie spese alla Biennale dei giovani artisti di Parigi. Documentai la presenza italiana con tutti gli artisti che avrei nuovamente incontrato in Italia: tra loro c’erano Boetti, Pisani, De Dominicis – che era assai misterioso e simpatico, ho ancora nelle orecchie la sua voce da baritono – poi Fabro con cui strinsi una forte amicizia, Penone, Calzolari, Prini, Kounellis. Successivamente a Palazzo Taverna, sede degli Incontri, fotografai la mostra degli artisti italiani presenti a Parigi e, da allora, sono rimasto il fotografo dell’associazione culturale.

Ricordo tutte le mostre curate da Corà alla fine degli anni ’80, poco prima che mi trasferissi a Barcellona dove ho vissuto fino al 1996: Bruce Nauman, Maria Norman, Luca Patella, Jack Sal, Vittorio Messina. Con Graziella diventammo subito molto amici, tra noi c’era un grandissimo affetto e tanta stima. Era una donna raffinatissima e generosa, che ha portato una profonda innovazione nell’arte. Era anche la più intensa mediatrice che conoscessi, brava a trattare la gente e a ricucire strappi, bastava che aprisse quella sua agenda impossibile da decifrare, con mucchi di foglietti in mezzo, e alzasse il telefono. Quando cominciò Contemporanea, nel 1973, Mulas era morto; mi dissero che sarei stato il fotografo ufficiale. Che vuol dire? Chiesi. Contemporanea era una mostra per quattro, cinque fotografi, non per uno solo! Non si poteva stare lì giorno e notte, la sera c’erano concerti e spettacoli. Il mio lavoro consisteva nel fare pile di stampe 18×24 che venivano date a chiunque vi andasse: giornalisti, collezionisti, galleristi».

 

Massimo Piersanti, opera di Wolf Vostell, Contemporanea, 1973-74 (courtesy l’artista)

 

Contemporanea
Il 29 novembre 1973 il parcheggio sotterraneo di Villa Borghese, progettato dall’architetto Luigi Moretti e non ancora inaugurato, diventò il palcoscenico della più ampia rassegna interdisciplinare che si fosse mai vista nella capitale. Tre mesi (fino al febbraio del1974) all’insegna di arte, cinema, teatro, architettura, fotografia, musica, danza, libri e dischi d’artista, poesia visiva e concreta e informazione alternativa. Della lunga collaborazione con gli Incontri internazionale d’arte, per Piersanti, Contemporanea è stata certamente il momento più esemplare. Nelle serate che si susseguivano a Palazzo Taverna, c’era sempre un caos creativo. «Andavo lì per due ore con la Nikon e facevo quello che potevo, spesso senza neanche sapere cosa avrei trovato. Fotografavo soprattutto in bianco e nero con pellicola 400 asa che potevo spingere a tempi lenti, così, con molta attenzione, potevo fotografare anche con poca luce. Un problema di cui oggi, con il digitale, non ci si rende più conto. Qualche volta, però, usavo anche il colore come per Christo. Sono l’unico fotografo che ha avuto l’idea di salire sui tetti degli alberghi lì intorno, l’Hotel Jolly e il Flora, per riprenderlo dall’alto mentre impacchettava Porta Pinciana. Capita ancora che qualcuno mi dica «quella foto fatta dall’elicottero». «Ma quale elicottero? Ero sul tetto!» (ride).

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