In una di quelle feste paesane del sud dove si possono comprare fragranti torroni dolcissimi o giocare d’azzardo con un primitivo bilanciere da ruota della fortuna, c’era sempre un suonatore ambulante, custodia aperta a raccogliere le offerte degli spettatori che chiedevano questa o quella storia, spesso in dialetto, mettendo alla prova memoria e abilità dello one-man-band. Così i brani, stracolmi di espressioni insolite, ora liriche ora gergali, diventavano Canzuni, il titolo scelto da Massimo Ferrante, musicista calabrese che ha lavorato a lungo con Daniele Sepe e i Zezi, prima di girare con un suo gruppo per anni e incidere vari dischi con la Felmay. Stavolta Ferrante ha deciso di fare tutto da solo, chitarra da strada e voce potente, seguendo l’esempio dei cantastorie meridionali, scegliendo un superbo repertorio e rifacendo alcuni suoi classici, con l’aiuto di una colletta tra amici (tra le orme degli ispiratori citati nel crowfunding Matteo Salvatore, Rosa Balistreri, Roberto Murolo).

C’È LA PRIMA melodia ascoltata, Ninnananna Joggese, quella che gli cantava mammaredda, dolce nenia tradizionale con frasi piovute da simili abitudini di regioni limitrofe («ohi ninnareddra/ ‘u lupu s’ha mangiatu ‘a picureddra/ohi picureddra mia, cumu facisti/ quannu mmucca a ru lupu ti si’ vista?») e quella più straziante, Pagella di scolaro in fondo al mare, la poesia del filosofo Aldo Masullo sulla morte di un ragazzino del Mali in un naufragio di centinaia di migranti nel canale di Sicilia nel 2015 con la pagella cucita nel vestito, lai la la lai la la, tu solitario ragazzino scriccioletto in balìa di forze infide.

QUATTORDICI TRACCE che fanno girare la testa, un turbine di intensità e passione politica mischiando stili, fischi e rabbia della canzone popolare, tagheta tagheta undu undu, passando dalle travolgenti tarantelle (Tarantella Joggese) alle canzoni d’emigrazione (Klama, in grico salentino), dalla filastrocca di un cantastorie, Eugenio cu ‘e llente, che si esibiva ai capolinea degli autobus partenopei (‘A Nuvella) alla strina, il canto propiziatorio natalizio (Strina du Judeo, Strina campagnola) proveniente dai saturnali romani («Ca sugnu sempri all’erta ppe’ cantari/ogni parola è cchiù ‘i ‘na curtellata/ca s’è de sfregiu sangu ha dé lassari»), dalla tradizione sannita dei Musicalia (Serenata) alle poesie raccolte da Pasolini e messe in musica (L’occhiu di lu suli). È una riappropriazione della memoria degli anni andati, delle folk song nelle diverse varietà regionali, dell’identità culturale di un territorio (Ferrante è di Joggi, frazione di Santa Caterina Albanese, comunità arbereshe in provincia di Cosenza) ricordando i fratelli caduti per la nostra libertà (il cantautore partecipa regolarmente a «Fino al cuore della rivolta», il festival toscano che celebra la Resistenza) e gli avvenimenti storici del dopoguerra in questa parte finale dello stivale, dalla strage di Bronte all’assassinio del sindacalista Carnivali da parte della mafia (Lamentu pi la Morti di Turiddu Carnivali, scritta da Buttitta e Profazio) e all’eccidio di Melissa per l’occupazione delle terre nel 1949 (Melissa).

TENERISSIMI i versi di Stu pettu è fatto cimbalu d’amuri, una villanella del XVII secolo, del gesuita Athanasus Kircher, studioso di tarantismo, già interpretata dal gruppo Pupi e Frisedde, la ninà, ni ninà, la nininena, strofe cantate da intere generazioni, trasformate da interpreti estrosi e rilucidate da questo trovatore mediterraneo che ha attraversato jazz, world, rock per tornare finalmente a casa.