Il Dizionario filosofico di Voltaire, alla voce Dio, Dei cita con pieno consenso alcuni argomenti contro l’antropomorfismo e il politeismo, ricavati da un testo antico Sul Dio di Platone. Li scrisse Massimo di Tiro, un autore oggi non particolarmente celebre «qui florissait sous les Antonins, ces modèles de la vraie piété puisqu’ils l’étaient de l’humanité». Al tempo di Voltaire, Massimo era ritenuto anche il maestro dell’imperatore Marco Aurelio, ruolo che certo ne accresceva l’autorevolezza. Era però un errore, indotto da mala interpretazione di alcune fonti antiche: l’intellettuale di Tiro fu sì a Roma, ma al tempo di Commodo, e il Massimo che Marco Aurelio ringrazia in un passo dei Pensieri era un omonimo… Del Massimo che piacque a Voltaire pochi dati biografici invece sono noti. Sono pervenute di lui quarantuno Dissertazioni, forse scritte di suo pugno, forse trascritte da un uditore. Il testo ha conosciuto in anni recenti un ritorno di interesse, con edizioni e commenti, ma l’unica versione integrale in italiano era ancora quella stampata a Venezia nel 1642. Ora la lacuna è colmata da una nuova traduzione e commento a cura di Selene I. S. Brumana (Massimo di Tiro, Dissertazioni, Bompiani «Il pensiero occidentale», pp. 928, € 40,00).
Si tratta in sintesi di «conferenze» in greco, che risalgono a una fase della cultura greco-romana, nei primi due secoli dell’impero, in cui stavano insieme, con risultati decorosi ma non originali, la retorica e la filosofia. Appunto si è discusso se Massimo vada iscritto tra i filosofi, oppure meglio tra i retori che si dedicavano a temi filosofici. Orienta verso questa scelta lo spazio grande che le Dissertazioni lasciano a Omero. Il poeta forma, con Platone, il punto di riferimento del mondo di Massimo, secondo il quale, appunto, «in qualche modo è possibile sia onorare ciò che concerne Platone, sia onorare Omero» (Dissertazione 17.3). Le conferenze sono il prodotto di una cultura enciclopedica e «senza tempo»: in pieno impero romano si parla ancora di Egizi e Persiani, di Dori e Ioni, di Atene e Sparta, come si fosse al tempo di Temistocle. Si esibisce un passatismo a uso dei colti, che porta a ragionare sulla città di Sibari, pur distrutta da seicento anni, insegna a trarre esempi eloquenti da Sardanapalo, da Alessandro o dai Tolomei, però sa ignorare l’esistenza dell’impero di Roma (salvo intendere che se ne parli, sotto mentite spoglie, nelle solenni deprecazioni antitiranniche…). Una cultura a suo modo ricca che, annota la curatrice, «richiede di essere esibita in forme di gradevole eloquenza», pur se risulta talora polverosa, come quando discute «se sia più utile l’agricoltura o la guerra» motivando l’uno e l’altro primato (Dissertazioni 23 e 24).
Massimo tratta, senza ansie di sistematicità, i temi di interesse etico e filosofico più frequenti, a quel tempo, nelle meditazioni morali. Ecco il «demone» di Socrate, le forme della preghiera, il fine della filosofia, i limiti del piacere, il confronto tra vita pratica e vita teoretica, il problema dell’origine del male. Origine dei materiali sono soprattutto i dialoghi platonici, ripensati attraverso gli sviluppi successivi nell’Accademia: un Platone inteso come filosofo ma anche «teologo». E pure come modello retorico. Le questioni sono trattate con un taglio didascalico, servendosi ora di analisi lunghe, ora di sviluppi retoricheggianti, ora di esempi eloquenti.
Senza essere un autore «ingombrante», giacché non ambiva alla profondità speculativa, Massimo fu a modo suo influente: proprio perché esprimeva un livello medio di cultura, non troppo sottile o astratto, prevedibilmente avverso ai sofisti, pacato e serio nel morale intrattenimento dei lettori. Uno stile che per lungo tempo ha fornito agli uomini colti (compreso Voltaire) modelli di riflessione morale, elevati ma non così impegnativi. Poi lo storicismo romantico ha imposto come criterio assoluto del valore la ricerca dell’originalità, e il testo ha perduto interesse. Qualcosa di simile è capitato allora a un altro pensoso letterato/filosofo greco d’età imperiale, il pio Plutarco, che nei suoi saggi discuteva temi spesso prossimi a quelli di Massimo, forse con ancor minore brillantezza.
Certo non è la vivacità a dominare le Dissertazioni. Coerente con il tono dell’autore antico pare l’intervento della curatrice e traduttrice e puntuale commentatrice. Questo l’attacco della premessa al libro: «Il cultore delle antiche litterae è certo avvezzo a confrontarsi con le dinamiche di un mondo che, ancorché passato, mostra sovente una sì eloquente generosità di contenuti da conferire al suo messaggio una perenne presente forza comunicativa, il cui nucleo profondo di sapienza ben risponde al mutare delle epoche perché dimorante nell’atemporale dimensione del classico». La traduzione, talvolta migliorabile, tiene in prevalenza lo stesso passo.