Nel linguaggio musicale, crooner indica l’interprete che si muove tra genere popolare e jazz e che, grazie a un uso sapientissimo del microfono, modula la propria voce lungo una molteplicità di toni che si avvicinano al parlato. E che, dunque, prevedono le tonalità più basse, l’incespicare, la fatica, il sussurro, il borbottio, il sospiro, lo starnuto, il brontolio, il respiro e la tosse. In italiano viene tradotto impropriamente come “cantante confidenziale”, ma in realtà si deve immaginare più Tony Bennet che Jonny Dorelli. Ecco, Massimo Bordin era un giornalista crooner.

Non è un caso che Stefano Bollani, bravissimo musicista jazz, dotato di misconosciute doti di imitatore, ne abbia fatto – quindici anni fa – un ritratto mirabile. Il Bordin di Bollani compulsava e aggrediva la carta stampata e dopo averla, con puntualità e pignoleria, letta e commentata, ne andava all’assalto: la faceva a pezzi, a brandelli, la appallottolava in una sorta di delirio di amore e di odio (e si poteva sospettare che, infine, la divorasse), accompagnato da una tosse ritmata che assumeva i tempi di quel ballo detto giava.

Massimo Bordin era questo e poi tutto il resto. Se non sbaglio – le biografie di persone riservate come Massimo sono affidate, innanzitutto, alla tradizione orale – il suo incontro con il giornalismo radiofonico avvenne quando Radio Città Futura si trasferì nei locali di via dei Marsi, dove si trovava la sede italiana della Quarta Internazionale. Bordin era un militante trotskista e tracce di quella esperienza e di quella cultura hanno accompagnato l’intera sua esistenza, in particolare per due connotati determinanti. Il primo si ritrovava nel suo fermo riferimento alla sorte degli sfruttati. Un riferimento mai retorico e mai declamatorio, che appariva quasi trattenuto e contenuto, fino a quando riteneva (lo immaginavo mormorare: «quando è troppo è troppo») di non poterlo più tacere.

Una rassegna stampa che procedeva fluida, inappuntabile e inattaccabile, ma quando poi emergeva una questione cruciale (di vita o di morte, di diritto o di torto, insomma di verità essenziali), allora Bordin diceva la sua in maniera inappellabile: dalla parte dei naufraghi o dei giovani precari o dei rom. In altre parole, va bene tutto, vanno bene le ambiguità più sottili e le cortigianerie più melliflue celebrate dai giornali, ma poi, alla resa ultima dei conti, ciò che davvero vale è la vita e la dignità degli esseri umani. Era questa la sua fedeltà da eretico alla storia e al sistema di valori del movimento operaio (fateci caso: quante volte accade che gli eretici siano più memori e coerenti di quanto lo siano gli ortodossi). E questo sapeva faticosamente ma ostinatamente combinare, da buon radicale pannelliano, col suo liberalismo di sinistra e col suo antistatualismo ben temperato.

L’altro tratto della sua militanza giovanile lo si rintracciava in quella acribiosa passione per il dettaglio e in quell’inesausto zelo per i particolari, quelli della storia italiana e del suo sistema di partiti, così come quelli delle vicende della criminalità organizzata e dei relativi infiniti processi. Qui emerge quella dimensione del “socialismo scientifico” che troppo spesso è stato buttato via insieme all’acqua sporca. E, tuttavia, si deve evitare di dare, di Bordin, una immagine deformata quasi si trattasse di un conduttore radiofonico tra gli altri. Era un fior di giornalista, capace di offrire ogni giorno un’accurata indagine politica che si snodava come un racconto sociale e culturale.

Era di origini venete ma immagino, chissà poi perché, non sia mai andato oltre Firenze. E mi suggeriva una simile idea quella sorta di antropologia urbana che ricavava, attraverso una toponomastica minuziosa, dalle vicende sociali e innanzitutto criminali di tre città amatissime: Roma, Napoli, Palermo. Poi, c’era la rubrica quotidiana su Il Foglio, Bordin Line, dove l’ironia del commento delle ultime righe sembrava volesse attenuare l’aspra esattezza delle contestazioni verso la vocazione all’Approssimazione del Giornalista Collettivo: fatti, date, nomi e cognomi, circostanze, località, parentele, associazioni legali e illegali, fasi processuali, ma anche soprannomi, usi e costumi, tic e vizi e virtù, tutto veniva sottoposto a quello che oggi viene definito fact checking, e che è nulla più dei criteri del buon giornalismo.

Lettore onnivoro (mi parlò a lungo di “Oro” di Salvatore Rossi), Bordin faceva brevi e riottosi accenni a qualche film, a qualche saggio, a qualche romanzo; tifoso della Roma, si piccava di non citar mai il gioco del calcio nel corso della sua rassegna. E questo, in un tempo che vede il linguaggio politico ricorrere alle più miserevoli metafore calcistiche, è un atto di elegante eroismo.

Per finire, devo dire che mai mi è capitato di scrivere così tanto a proposito di un amico con il quale mai ho pranzato o cenato, mai preso un caffè e mai andato al cinema. Ci siamo sentiti al telefono e abbiamo parlato decine e decine di volte, ma proprio il fatto che ancora a lungo potrei parlare di lui si deve – lo giuro – solo in minima parte alla mia prolissità. Assai di più, invece, a quella espressione di intelligenza culturale e politica che è stata la sua Stampa e regime. Non stupisce che oggi vi sia chi la voglia chiudere, insieme a quella scuola di memoria e di giornalismo così sfrontatamente pubblica e istituzionale che è Radio Radicale.