Torino 1973: le strade sono gremite dai manifestanti che sventolano le bandiere rosse, e la città è meta di migliaia di emigrati meridionali partiti verso il Nord per lavorare alla Fiat. Ettore Scola li aveva raccontati attraverso la storia dell’operaio campano Fortunato Santospirito in Trevico-Torino – Viaggio nel Fiat-nam. Ed è da quella Torino del 1973 che prende le mosse anche Massimino di Piero Li Donni, presentato in questi giorni nel concorso della sezione Prospettive di Filmmaker Festival. Il Massimino che dà il titolo al film è il bambino protagonista di un altro film di Scola di sette anni dopo – Vorrei che volo, commissionato al regista dal Pci – che lo elegge a «guida» per visitare ancora una volta la città industriale, e a simbolo di un possibile riscatto della classe operaia raccontata in Trevico-Torino: la nuova generazione che avrebbe forse visto il sol dell’avvenire.

«Scola immaginava il piccolo protagonista di Vorrei che volo come il ’figlio ideale ’ di Fortunato Santospirito; e con Massimino ho cercato proprio di ricreare a posteriori questo rapporto filiare», spiega Li Donni che con il suo cortometraggio è stato uno dei tre vincitori della prima edizione del Premio Zavattini, fondato dall’Archivio del Movimento Operaio proprio per rimettere in circolazione e dare una seconda vita al suo prezioso patrimonio di immagini – che verrà arricchito quest’anno, per la seconda edizione, anche da quelle dell’Istituto Luce.

Massimino, racconta infatti il regista, doveva essere inizialmente un film tutto d’archivio. «Ma poi mi sono scontrato con la realtà: in occasione del premio alla carriera conferito a Scola al Torino Film Festival del 2012, lui aveva lasciato intendere che il protagonista di Vorrei che volo, da adulto, era stato arrestato. Nelle note di produzione del film c’è il suo cognome, e ho trovato anche degli articoli sulla Stampa che parlavano dei suoi arresti, quindi sono partito per incontrarlo». Così, alle immagini dei due film di Scola Li Donni aggiunge anche quelle girate da lui e che ci raccontano Massimino oggi, in una Torino «in profonda contraddizione con quella che Scola pensava sarebbe diventata».

Massimino è infatti proprio la storia di una speranza non realizzata: all’alienazione dei lavoratori del «Fiat-Nam» non è seguita l’emancipazione, il riscatto, ma un’alienazione ancora peggiore in cui non ci sono più neanche il lavoro e la politica – quelle bandiere rosse intorno alle quali riunirsi e lottare.
«Inizialmente – racconta ancora Li Donni, che nel film si rapporta in prima persona con il suo protagonista – Massimo pensava di autorappresentarsi ’mettendo la polvere sotto il tappeto’, nascondendo ciò che non andava. Per questo nel film mi rapporto con lui, quasi in un corpo a corpo».

Con un berretto da Babbo Natale il protagonista cerca di dare ai passanti un suo «curriculum» da muratore, per essere chiamato a lavorare – a casa gli tiene compagnia il pappagallino Ciro e la moto va venduta per racimolare qualche soldo.
Nell’ideale rapporto padre-figlio tra Fortunato Santospirito e Massimino si legge così in controluce la storia del capoluogo dell’industria italiana, il riflesso di un fallimento che non è solo personale: Massimino, come il protagonista di Trevico-Torino prima di lui, incarna il sogno di un’epoca – e la sua fine senza clamore in una città che  sembra ormai deserta.