«Maledetti, andate via, arrivate solo ora, ormai i feriti sono morti tutti». Sono passati due giorni dal massacro di Shujayea e nuove stragi di civili innocenti si sono già accumulate nelle ultime 48 ore: Rafah, Bani Suheila, Khan Yunis, l’ospedale al Aqsa di Deir al Balah, solo per citarne alcune. Eppure quelle parole urlate, quel volto sfigurato da dolore e rabbia, quei gesti aggressivi, non possiamo ancora dimenticarli. Aveva ragione quell’uomo. Per 12 ore gran parte dei giornalisti sono rimasti al sicuro – ad eccezione del fotografo di Gaza, Khaled Hamad, ucciso dal fuoco dei soldati israeliani -, impegnati ad annotare a distanza di sicurezza gli aggiornamenti di morti e feriti diffusi dal ministero della salute di Gaza. Poi nelle uniche due ore di tregua nel massacro, tra le 13.30 e le 15.30 di domenica, ci siamo precipitati tutti, telecamera e smartphone in pugno, a filmare le case abbattute a cannonate, la gente che scappava in preda al panico, le ambulanze che a tutta velocità trasportavano all’ospedale “Shifa” decine e decine di feriti e cadaveri. Con l’idea che la notizia ha la precedenza sul dolore, prima del sentimento di pietà per un corpo decapitato, straziato dalle esplosioni. Sì, aveva proprio ragione quell’uomo cher ci urlava contro.

 

Quello contro Shujayea è stato un bombardamento incessante che non si è fermato per un minuto tra sabato sera e tutta domenica. E che si è intensificato dopo l’agguato al blindato israeliano a ridosso di Shujayea compiuto dai combattenti di Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas, e in cui sono morti 13 soldati. Di fatto è stato persino peggiore di quello di Bint Jbeil, la cittadina libanese ridotta in un cumulo di macerie dall’artiglieria israeliana durante la guerra del 2006 contro Hezbollah (nell’assalto morirono 17 soldati di Israele). Peggiore perchè a differenza di Bint Jbeil, a Shujayea molti degli abitanti erano ancora in casa, non erano scappati, inconsapevoli che i tiri dei cannoni israeliani sarebbero arrivati così in profondità. La popolazione, ci ha raccontato un scampato al bombardamento, si aspettava scontri e tiri di artiglieria solo sulle case più esposte, in “prima fila”, già abbondonate dai proprietari. I carri armati invece hanno fatto fuoco su edifici distanti anche 2-3 km dal fronte delle operazioni. Una scarica di colpi che si è abbattuta su Shujayea anche ieri facendo altri 3 morti che si aggiungono agli almeno 72 di domenica (2/3 del totale di 110 morti, il più alto dei primi 13 giorni di offensiva israeliana).

 

Perchè i cannoni israeliani ora sparano così tanto, sempre spesso in modo indiscriminato? E’ l’interrogativo di molti. Alcuni dei giornalisti più noti di Israele, come Nahum Barnea e Alex Fishman, ieri mettevano in rilievo le similitudini con il Libano del sud nella guerra del 2006. A cominciare dal livello di addestramento messo in mostra dagli uomini di Ezzedin al Qassam, non più inferiore a quello dei guerriglieri di Hezbollah. Se fino a qualche tempo fa, i palestinesi armati si ritiravano all’apparire dei mezzi corazzati, ora sono organizzati per resistere. Ieri hanno ucciso altri sette soldati israeliani. Oltre ai militari morti occorre tenere presente anche quelli rimasti feriti nei combattimenti, almeno 101, un numero molto alto rispetto a precedenti scontri con i palestinesi. La milizia di Hamas ha dimostrato, nonostante le 20 perdite subite tra domenica e lunedì, di fare uso efficace delle gallerie sottorranee che da Gaza sbucano in Israele. Inoltre continua a lanciare razzi dall’altra parte del confine, prendendo di mira anche Tel Aviv. Ieri ne ha sparati una novantina, specie verso il sud di Israele.

 

I comandi militari israeliani si sono resi conto di avere di fronte un osso duro, ben oltre le previsioni della vigilia e le informazioni passate dall’intelligence militare. Così dopo l’agguato ai 13 soldati morti domenica, per ridurre al minimo le perdite ora vogliono una maggiore copertura di artiglieria, con gli esiti visti a Shujayea. E che purtroppo potrebbero ripetersi anche in altre zone dalla parte orientale di Gaza dove le forze armate israeliane stanno distruggendo la “rete di tunnel” e allargando la “no-go zone” a danno dei centri abitati palestinesi a breve distanza delle linee di demarcazione con Israele: Beit Lahiya nel nord, Shujayea, Abasan, Bani Suheila e Rafah. Rischiano anche i campi profughi a sud di Gaza city: al Maghazi, Nuseirat e al Burej. Israele annunciando la settimana passata l’inizio delle operazioni di terra, aveva fatto riferimento ad “incursioni limitate”. Cinque giorni dopo invece è coinvolto in una rioccupazione, parziale, di Gaza, a nove anni dal ritiro di militari e coloni dalla Striscia. Ed è ancora da chiarire il mistero del soldato che Hamas sostiene di aver fatto prigionierio nella notte tra sabato e domenica a Shujayea. Israele, attraverso l’ambasciatore all’Onu, ha smentito ma i dubbi restano.

 

Se non sarà trovata una soluzione politica al più presto, le stragi di civili, che sempre più spesso coinvolgono bambini, non potranno che moltiplicarsi alla luce del fuoco sempre più intenso che fanno artiglieria e aviazione di Israele. E i palestinesi uccisi, sventrati e decapitati dalle esplosioni, non sono affatto «telegenici per la loro causa» come dice il premier israeliano Netanyahu. Ieri i raid aerei hanno decimate tre famiglie allargate. A Gaza city Yasmin, Mayar, Wajdi, Safinaz e Anas al Yaziji, alcuni dei quali bambini piccoli. A Khan Yunis sono morti sempre in un attacco dal cielo Karam Barham, 25 anni, Ali Abu Daqqa, 26, Nidal Asi, 43, e Muhammad Mughrabi, 24. Un altro raid attacco aereo ha ucciso 11 membri della famiglia Siyam di Rafah, tra cui Dalal, una bimba di otto mesi. Il massacro più ampio è avvenuto ancora a Khan Yunis. Dalle macerie di una palazzina di quattro piani centrata da un bomba ad alto potenziale sono usciti i corpi di 26 membri della famiglia Abu Jami molti dei quali bambini. Nel pomeriggio un missile ha colpito il terzo piano dell’ospedale “Martiri di Al Aqsa” di Deir al Balah, uccidendo otto persone. «Non abbiamo ricevuto alcun avvertimento (da Israele), d’altronde siamo un ospedale perchè siamo stati colpiti? L’ospedale è lontano dalla zona dei combattimenti», ha spiegato il dottor Mehdat Abbas, primario dell’al Aqsa. Nei giorni scorsi aveva subito la stessa sorte l’ospedale el Wafa di Shujayea.

 

Intanto l’arma di “distrazione di massa” continua a sviare l’attenzione degli occidentali nel tentativo, peraltro inutile, di nascondere se non addirittura di giustificare l’immenso bagno di sangue in atto. Ieri, mentre chiudevamo questo numero del nostro giornale, il totale dei morti palestinesi aveva raggiunto il numero di 548, oltre 3 mila i feriti (tra gli israeliani, uccisi in combattimento 25 soldati e da razzi due civili). Numeri spaventosi che interessano poco gli inviati di alcuni giornali europei che preferiscono dare l’allarme su inesistenti minacce di jihadisti palestinesi ai giornalisti occidentali. Nel fine settimana “l’asino-bomba” di Hamas e la presunta crudeltà verso gli animali dei miliziani del movimento islamico erano stati la notizia del giorno per questi inviati. Poi ha imperversato la notizia dei leader di Hamas che si fanno scudo dei civili e vivono protetti in bunker a differenza degli altri palestinesi sotto le bombe. Infine ha tenuto banco la dichiarazione imbecille di Abu Obeida, portavoce del braccio armato di Hamas, che ha “promesso” la distribuzione di 250mila bombe a mano ad altrettanti ragazzi di Gaza.

 

Un po’ di attenzione questi organi d’informazione avrebbero potuto dedicarla alla decisione dell’esercito israeliano di radere al suolo “La Terra dei Bambini”, la struttura scolastica gestita dalla ong milanese “Vento di terra”, finanziata dalla Cooperazione governativa italiana e visitata lo scorso 16 gennaio dalla Presidente della Camera Laura Boldrini. Il centro per l’infanzia ospitava un asilo con 130 bambini e un ambulatorio pediatrico.