Nel documentario realizzato nel 1940 con il titolo Lights out in Europe, girato per illustrare al pubblico americano la situazione oltreoceano e sensibilizzarlo in favore di una partecipazione statunitense al conflitto europeo, il regista Herbert Kline e lo sceneggiatore e romanziere inglese James Hilton dedicano un ampio spazio al periodo precedente l’entrata in guerra della Gran Bretagna: le immagini mostrano, da un lato, la preparazione quasi ossessiva del popolo britannico al conflitto e, dall’altro, i titoli ottimistici dei giornali, che negano la possibilità di un coinvolgimento inglese.

Il documentario di Kline riporta alla luce quei giorni del 1939, perlopiù ignorati dagli stessi inglesi, in cui la guerra veniva esclusa dalla stampa popolare, ma intanto a Londra si disponevano sacchi di sabbia lungo le sponde del Tamigi e in tutto il paese la gente comune si preparava agli eventuali bombardamenti, e imparava come usare le maschere antigas e come adattarle persino ai neonati. È ambientato in questo periodo Una boccata d’aria, l’unico romanzo giovanile che George Orwell non abbia rinnegato, e che ora viene riproposto negli Oscar Mondadori con una introduzione di Andrea Binelli (traduzione di Bruno Maffi, pp. 274, euro 14,00).

Datate 1939, queste pagine incrociano descrizioni realistiche di addestramenti pre-bellici all’acre sarcasmo del narratore protagonista, tanto che si potrebbero equivocare i fatti raccontati come invenzioni grottesche, e le osservazioni sulla guerra imminente si potrebbero leggere come profezie distopiche. Per bocca di un mediocre assicuratore di mezza età, grasso e con la dentiera, Orwell raconta quei giorni, che a noi appaiono, se privi di adeguate conoscenze storiche, a distanza di quasi ottant’anni, paradossalmente surreali. A una prima lettura, il libro potrebbe sembrare irrimediabilmente datato, legato com’è a un mondo di cui abbiamo smarrito le tracce, con un protagonista sdentato a soli quarantacinque anni, che si sente vecchio e coltiva il mito di una Inghilterra rurale e comunitaria. Tuttavia, proprio nella resa di una situazione storica che oggi può sembrarci irrazionale sta il fascino ambiguo di questo romanzo, in cui incontriamo – per esempio – un gruppo di scolari con la maschera antigas che, scendendo di corsa lungo un pendio, vengono scambiati dal narratore per «un branco di maiali, un mare ondeggiante di teste di porcello».

Orwell arrivò a considerare Una boccata d’aria il suo romanzo migliore: certo rappresenta al meglio quella che David Daiches definiva la sua «onestà masochistica», ovvero una caparbia volontà di documentare il reale, anche a costo di farci imbattere in elementi fastidiosi, tutt’altro che passibili di suscitare empatia. George Bowling, il narratore-protagonista, è un uomo comune la cui giovinezza è stata sconvolta soprattutto dalla crisi del primo dopoguerra: sollecitato da un serie di odori, torna con la memoria all’infanzia, specchio di una civiltà che «sta esalando l’ultimo respiro». Alla realtà che lo circonda, «a base di odio (e) di slogan», oppone il ricordo di un piccolo universo rurale in cui «non si pensava all’avvenire come a qualcosa di cui avere paura», in un tempo in cui « Tutti sapevano di dover morire … ma in compenso tutti ignoravano che l’ordine delle cose potesse cambiare».

La «boccata d’aria» cui fa riferimento il titolo del romanzo è una fuga da Londra, dal lavoro e dalla famiglia, verso il villaggio delle sue origini, che George si concede nel tentativo di ritrovare la sicurezza perduta. Destinato, com’era prevedibile, alla delusione, il ritorno al paese natale è l’unico evento del romanzo e occupa appena una settantina di pagine in un lavoro in cui, senza organizzarsi in una vera trama, si susseguono ricordi, riflessioni ed elucubrazioni del protagonista, la cui voce narrante oscilla tra il sarcasmo – quando non il cinismo – della prima parte e i toni quasi elegiaci che riserva alle memorie d’infanzia, in primo luogo ai suoi ricordi di giovanissimo pescatore.

Tra quanto accade quando «un’immagine o un suono o un odore giunti per caso, specialmente un odore, ti mette in moto» e ciò che il protagonista trova quando si mette alla ricerca dei simulacri del suo passato, l’abisso è incolmabile: «Perché così vanno le cose. Perché nella vita che conduciamo … noi non facciamo mai le cose che vorremmo … C’è un tempo per ogni cosa, eccetto per quelle degne di essere fatte».

Insieme a Una boccata d’aria, Mondadori manda in libreria l’opera prima di Orwell, Senza un soldo a Parigi e a Londra, (anch’essa con prefazione di Andrea Binelli, traduzione Isabella Leonetti, pp. 238, euro 13,00), resoconto di un periodo trascorso dall’autore alla deriva nelle due capitali europee. Il disagio, l’emarginazione e il degrado vengono raccontati senza alcuna inclinazione moralistica, ma anche senza empatia, mantenendo una sorta di trasparenza ai fatti, e creando un effetto così impersonale da indurre l’autore a scrivere in chiusura: «questo mondo un giorno o l’altro voglio esplorarlo più a fondo … Attualmente non mi sembra di avere visto niente più che i margini della miseria».

In tono colloquiale e con dovizie di particolari, Orwell descrive il lerciume della cucina di un lussuoso hotel parigino, le nefandezze di cuochi e camerieri, il lezzo dei ricoveri di mendicità londinesi, l’abiezione di certe locande e le nottate sulle panchine dell’Embankment. Nella soluzione suggerita per sconfiggere il vagabondaggio appare per la prima volta, in filigrana, il mito idilliaco della vecchia Inghilterra rurale tanto caro a George Bowling, il protagonista di Una boccata d’aria: basterebbe, osserva Orwell, dare modo ai mendicanti «di produrre almeno una parte del loro vitto», annettendo a ogni ospizio un piccolo podere da coltivare.