«Con una condanna così pesante all’avvocata Nasrin Sotoudeh, la magistratura iraniana pensa di terrorizzarci». A parlare, al telefono da New York dove vive in esilio, è Masih Alinejad, promotrice della campagna contro il velo Stealthy Freedom (Libertà clandestina). «Su Facebook dal 2014 invito le iraniane a postare le loro foto a capo scoperto, un gesto che può costare caro. Una campagna appoggiata da tanti uomini, che si sono fatti fotografare accanto a madri, mogli e figlie senza velo».

«Nasrin era il mio avvocato, ma non posso dire sia stata condannata a causa mia perché difendeva tanti dissidenti ed esponenti delle minoranze», continua Masih che quattro anni fa è stata insignita del premio del Geneva Summit for Human Rights and Democracy, coalizione di una ventina di ong.

«Quando avevo ricevuto minacce di morte, quando già vivevo all’estero, Nasrin aveva accettato di difendermi ma non ero riuscita a espletare le pratiche perché alla sezione di interessi dell’Iran a Washington [presso l’ambasciata del Pakistan, ndr] mi volevano costringere a coprire i capelli e non ho accettato».

Il velo non è solo un pezzo di stoffa: a certe latitudini è simbolo di molteplici battaglie per i diritti. Per questo Masih insiste «affinché le donne europee impegnate in politica, in primis l’Alto Commissario dell’Ue Federica Mogherini, non acconsentano a velarsi quando si recano a Teheran: il foulard non è questione da poco, combattere l’obbligo del velo [imposto dall’Ayatollah Khomeini nel 1979] mi è costato l’esilio, l’abiura in tv da parte dei miei genitori e minacce di morte anche se ormai vivevo all’estero».

Masih aggiunge: «La condanna colpisce tutte le iraniane che hanno il coraggio di scendere in strada senza velo. Recentemente, altre 29 persone sono state fermate perché partecipavano alle proteste». E ammonisce la magistratura: «Incarcerando, minacciando, costringendoci all’esilio, non potranno fermare le proteste. Ogni giorno ricevo video da postare online, in cui le donne si tolgono il velo, consapevoli delle conseguenze».

Teatro del dissenso femminile non è solo la capitale: «La scorsa settimana due donne sono state arrestate perché camminavano per strada senza velo a Kengavar. La conseguenza è stata che molte altre persone si sono unite al movimento. Il nostro femminismo è attivo tutti i giorni, non solo l’8 marzo».

Se Masih Alinejad combatte l’obbligo del velo (e non il velo in sé), è perché «a sette anni mi è stato imposto per andare a scuola». Nel suo villaggio nel Mazandaran, i genitori sono coltivatori. Una famiglia religiosa. Quando accompagnava la madre ai funerali, Masih accartocciava un giornale dandogli la forma di un microfono e passava tra la gente a fare domande.

Reclamava diritti che i fratelli davano per scontato: «Volevo nuotare nel ruscello ma esporre il corpo mi era vietato, così come non ero autorizzata ad andare in bici, a cantare e mostrare i capelli».

Masih si trasferisce a Teheran, nel 2001 riesce a farsi assumere dal quotidiano riformista Hambasteghì, ma nel 2005 scrive un’inchiesta sulla corruzione dei deputati e ci rimette il posto. Passa alla redazione di Etemad Melli, nel 2008 paragona però il presidente Ahmadinejad a un istruttore dei delfini: attorno a lui si riunisce la povera gente che spera in un pezzo di pane, come i delfini con l’uomo che cerca di addomesticarli. Masih lascia l’Iran nel 2009, una settimana prima delle contestate elezioni.

Se vi ho raccontato la sua storia è perché dietro il velo si cela ben altro.