La Fondazione Querini Stampalia di Venezia ha al suo attivo una lunga e consolidata esperienza nel campo delle arti visive contemporanee. Questo guardare al presente con spirito di ricerca rende la casa-museo della famiglia Querini un unicum nel panorama europeo.
La vocazione a valorizzare il genius loci con la sua ricca collezione d’arte stratificata nei secoli e nel contempo a mantenere alta l’attenzione sull’arte contemporanea è ben sintetizzata dalla ormai ventennale attività dei progetti site specific di «Conservare il Futuro». Questi progetti, ideati e curati da Chiara Bertola, hanno visto artisti del calibro di Michelangelo Pistoletto, Lothar Baumgarten, Giulio Paolini, Kiki Smith, Giuseppe Caccavale, Mona Hatoum e Marisa Merz confrontarsi e interagire negli spazi espositivi, facendo della casa-museo non solo una piccola fabbrica del contemporaneo, ma anche un caleidoscopio temporale di percezioni estetiche.
Nodo del cielo, 1972
Con la costituzione nel 1992 del fondo Mazzariol – nato dalla volontà di ricordare lo studioso d’arte e di architettura contemporanea Giuseppe Mazzariol, già direttore della Querini Stampalia dal 1957 al 1974 – la Fondazione diventa anche un interessante archivio di opere d’arte del Novecento. Tra queste opere spicca un acrilico su tela del 1972, Nodo del cielo, della raffinata, sensibile ma «non classificabile» Titina Maselli (Roma 1924-2005). Ed è proprio alla Maselli che la Querini Stampalia dedica una mostra antologica aperta al pubblico fino al 19 marzo prossimo, curata da Chiara Bertola, con il supporto della Galleria Massimo Minini di Brescia. Una piccola ma significativa retrospettiva, questa, che ci introduce, con una trentina di dipinti più un ritratto a lei dedicato dall’amico Renzo Vespignani, alla produzione di quasi mezzo secolo di un’autentica outsider dell’arte del secondo Novecento.
Il fulcro di questa mostra è rappresentato, a ragion veduta, dai lavori della maturità degli anni sessanta e settanta, in cui la Maselli mette in pratica una pittura icastica e di effetto, che fa del segno grafico e dell’uso del colore (perlopiù acido, alterato, uniforme) gli elementi emblematici delle sue immagini, combinati con una sapienza tale da rendere la superficie pittorica un vero e proprio campo di trasparenze, di intersezioni e integrazione di tutto con tutto: una pittura capace di alleggerire ogni cosa e ridurre folle umane, corpi grevi e strutture pesanti in eterei riflessi di luce. Tale riduzione espande la percezione dei fenomeni facendone proliferare le energie e le dinamiche sensoriali. I continui giochi speculari, le iterazioni ritmiche ossessive fanno di ogni frammento rappresentato una «realtà aumentata». E così i grattacieli, i binari, i reticolati tranviari, i dettagli di camion, le insegne metropolitane, i tifosi allo stadio e gli sportivi allo spasmo divengono, nelle elaborazioni della Maselli, pure epifanie di un’essenza energica e dinamica.
«La modernità mozza il fiato», dirà l’artista agli inizi degli anni settanta. «Essa è la vita, ma anche ciò che non può essere vissuto. Tutto è energia e tutto è coscienza. Tutto è materia e tutto è spirito».
Nell’osservare i suoi dipinti (quali, tanto per citarne solo alcuni, il Grande cielo I del 1967, dove sul fondo rosso baluginano insegne luminose e fili tranviari che si perdono nella prospettiva; o La ville II del 1971, con lo stagliarsi di un corpo vegetale sullo sfondo di uno specchiante grattacielo; o ancora il notturno snodo metallico dei Fili nel cielo del 1969) si comprende come, in Titina Maselli, il reale si componga di astratti elementi formali che nella loro icasticità colgono la complessità del mondo. È lei, infatti, in una sua riflessione, ad affermare di aver sempre «cercato di dipingere delle cose che, in sé, mi sembravano avessero la porosità rispetto alla vita: il camion che va nella notte, va… mi pare un’immagine eterna! Le tremila finestre di un grattacielo, mi sembra che riflettano il cielo: che possono dare interamente l’osmosi tra spazio, volume, nevrastenia della gente, aria libera, aria tossica, amore dentro le finestre, insomma tutto…».
L’allestimento dei dipinti senza cornici, che fanno dello spazio espositivo della Querini l’unico diaframma tra l’opera e lo spettatore, crea una virtuosa continuità tra le opere, una transitività capace di lasciar fluire l’ordine delle singole composizioni nel più vasto tema metropolitano. E qui, a chiusura della mostra, ci attende una sbalorditiva partenza nell’opera Metro del 1975: un dipinto composto di otto tele di grandezza crescente e di quasi sedici metri di lunghezza, concepito come una sequenza di fotogrammi di uno stesso finestrino, dove il profilo di donna con cappello, in presa diretta, si ripete accelerato con sempre maggiore frequenza, fino al punto da dissolversi nello spazio dilatato e indistinto della velocità e dei riflessi.
Il libro Titina Maselli: autoritratto involontario di una grande artista, edito da Castelvecchi nel 2015, a cura di Sabina De Gregori, presente anche nel piccolo catalogo realizzato ad hoc per la mostra della Querini Stampalia, ci introduce l’artista romana attraverso il racconto di coloro che l’hanno conosciuta e hanno avuto un peso importante nella sua vita. Tra i molti critici, scrittori e artisti che la ricordano, spiccano il fratello regista Citto Maselli, l’attore Carlo Cecchi, l’editrice Ginevra Bompiani, i pittori Ruggero Savinio e Piero Guccione. Essi delineano il ritratto di una donna indipendente e raffinata, con una sensibilità coltivata nell’humus intellettuale della casa paterna romana di via Sardegna, dove si incontravano intellettuali e artisti: Luigi Pirandello e il figlio Fausto, Emilio Cecchi, Silvio D’Amico, Alberto Savinio, Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli.
Fuga dal tonalismo
In un’intervista del 2004 la Maselli dirà: «A dipingere avevo cominciato presto, a undici anni. Mio padre Ercole era un critico d’arte militante, ma a me non interessavano gli artisti di cui si occupava, la Scuola Romana, il tonalismo, la metafisica. Quando a vent’anni cominciai ad andare in giro per la città per catturarne le immagini, per me la Roma monumentale, barocca o imperiale non esisteva, non avevo nessuna passione per il paesaggio romano. Cercavo la città moderna, e mi sembrava di scorgerla in un suo aspetto notturno e calcinoso». È la Roma postbellica che la Maselli ama ritrarre e rendere irriconoscibile: quella delle macerie e della ricostruzione, la Roma di piazza Fiume, nei pressi di Porta Pia, alla fine degli anni quaranta, quando il discorso sull’arte viene polarizzato su feroci e spesso sterili dibattiti tra astrattisti e figurativi, tra rivoluzionari dell’arte e artisti per la rivoluzione. È il tempo in cui la giovane pittrice non sceglie da che parte stare, ma seguendo la sua indole si incammina lungo la strada di un’autonoma ricerca.
E così, dopo il matrimonio (presto fallito) con Toti Scialoja, la prima personale alla Galleria l’Obelisco di Roma nel 1948 e la prima partecipazione alla Biennale di Venezia del 1950, l’artista si trasferisce a New York. In questi anni, tra il 1952 e il 1955, incontra la Grande Metropoli dove assimila aspetti della Pop Art. Trasloca poi in Austria, dove si concentra sul colore. Negli anni sessanta comincia a lavorare su grandi dimensioni. È nuovamente a Roma. Vive da scenografa. A partire dal 1970 si trasferisce a Parigi.
La sua ricerca formale è astratta e figurativa insieme. Lontana dai coinvolgimenti sentimentali e aneddotici. Lontana dal decorativo. Vicina alla sua arte, che, come ripeterà, è «l’unica giustificazione».