Nel 1920, a poco più di vent’anni, Curzio Malaparte era addetto diplomatico presso la Regia delegazione italiana di Varsavia. Nel suo breve passato, aveva avuto il tempo di frequentare gli intellettuali della «Voce» e di «Lacerba», di arruolarsi in guerra, d’infiammarsi di passioni politiche confusamente ribelliste e «proletarie». Adesso era arrivato il momento per lui di entrare in contatto con la Rivoluzione russa, o meglio con la fase finale della terribile guerra civile che l’aveva seguita. L’Armata rossa di Trockj e del maresciallo Budënny, la stessa che Isaak Babel’ avrebbe celebrato di lì a poco nell’Armata a cavallo (1926), assediava Varsavia. La città era allo sbando, il governo era debole e diviso, tutto sembrava pronto perché un’insurrezione comunista conquistasse il potere aprendo le porte all’esercito sovietico. Ma inaspettatamente questo non succede. Arrivano le vittorie del generale Weygand a ribaltare la situazione e salvare la Polonia dal contagio rivoluzionario. Malaparte vive queste vicende con la fredda imparzialità dell’osservatore: ha già intuito la maschera del proprio personaggio, un testimone distaccato, pronto a prendere atto di tutte le soluzioni, e soprattutto immune dai malanni borghesi dell’idealismo e del sentimentalismo.

In ogni caso è a Varsavia nel 1920 che nasce il suo interesse per la rivoluzione comunista, come ripeterà più volte negli anni successivi, con sfumature diverse a seconda che il discorso sia rivolto ai lettori, a Palmiro Togliatti (nel ’44), o al Procuratore generale di Firenze, nel Memoriale difensivo in relazione alle accuse di connivenza col fascismo (da cui venne prosciolto). Le convergenze indubbie di Malaparte col fascismo, con quel fascismo di sinistra da cui è uscita tanta parte, per buona e per cattiva fortuna, della classe intellettuale repubblicana, hanno avuto un decorso troppo intricato e controverso per poterne discutere in poche righe, ma si può prendere per buona l’opinione di chi, come Luigi Baldacci, ricordava che comunque lo scrittore «aveva fatto col regime un gioco pesante».

La passione per la Russia sovietica è stata in qualche misura una tessera di questo gioco, un terreno di sfida a Mussolini sul piano della libertà d’espressione e della coerenza rivoluzionaria della politica fascista. Nel 1929, poco dopo avere assunto la direzione della Stampa di Torino, Malaparte va in Russia con voluta ostentazione e ci rimane per qualche settimana, inviando una serie di corrispondenze al proprio giornale. Il tono degli articoli è apertamente elogiativo, e lo scrittore racconta che Mussolini, infuriato, chiedeva sarcasticamente se per caso Malaparte non voleva candidarsi alla direzione della Pravda. Tuttavia né La Stampa viene sequestrata né il volume che raccoglie gli scritti incontra ostacoli particolari alla pubblicazione. Esce nel 1930 presso Treves col titolo Intelligenza di Lenin, dove il termine intelligenza significa «comprensione», o «tentativo di spiegare» il leninismo.

Un bieco poeta di regime

In Russia Malaparte visita Mosca e Leningrado, frequenta quella che chiamerà «la nobiltà marxista», assiste alle riunioni del Sindacato degli scrittori e alle sedute del Congresso panrusso dei Soviet. Conosce alcuni scrittori, fra cui Bulgakov e Majakovskij, oltre all’onnipresente Dem’jan Bednij, il bieco poeta di regime che già allora godeva di un appartamento al Cremlino. Intenzionato a dare un quadro complessivo della società sovietica, ne attraversa gli strati in verticale, pranza nelle stolovaie e s’introduce nei Club operai, gira per il mercato di via Smolensky dove la vecchia nobiltà in rovina vende gli ultimi resti della passata ricchezza. Studia molto, con l’autorizzazione del ministro Lunaciarskij passa lunghe ore alla biblioteca dell’Istituto Lenin di Mosca.

Dopo avere enunciato nell’Introduzione i punti fondamentali della sua prospettiva – non si può giudicare il bolscevismo come un «enigma asiatico», perché è un fenomeno europeo, e non ha senso valutarlo al di fuori dei suoi stessi principi – Malaparte racconta per pannelli la sua Urss, ribaltando uno per uno gli stereotipi occidentali e rispondendo alle più viete obiezioni del liberalismo. Lenin, dice, non si è battuto per la libertà, ma per imporre la dittatura del proletariato. Chi si batteva per la libertà era Kerenskij, «il pallido, il miope, l’eloquente Kerenskij (…), il più ridicolo eroe di tutta la rivoluzione». Di conseguenza non ha senso dire che gli operai sono stati ridotti in schiavitù, mentre è vero che «hanno rinunziato alla libertà per avere il potere». Questo modo di vedere le cose esclude di proposito le preoccupazioni umanitarie: nessuna pietà per l’aristocrazia travolta dalla Rivoluzione, né per l’intellighenzia, che come quella si è lasciata travolgere senza combattere. Nessun giudizio negativo sui metodi spietati della campagna di collettivizzazione e sulle purghe interne al partito, sulle quali peraltro non poteva che avere informazioni lacunose. La figura di Lenin – la sua mummia al Cremlino con un lieve sorriso che gli increspa le labbra – aleggia su questo mondo in tumultuosa trasformazione, in preda alle convulsioni che precedono la nascita di una nuova società. Il punto di vista di Malaparte è efficace e senza dubbio potente dal punto di vista rappresentativo. Gli consente di vedere più lucido e più chiaro di tanti osservatori, nelle dinamiche sociali, nella condizione della donna, nei riflessi della nuova situazione sulla psicologia collettiva. Il combinato di cinismo e tecnica fotografica inoltre è in grado di produrre una serie di immagini memorabili, come la già ricordata mummia di Lenin («disteso nella bara di vetro, dorme sereno e imbalsamato. La sua coscienza è tranquilla. Nel viso bianchissimo, lentigginoso, dagli zigomi di mongolo sporgenti, la luce fredda delle lampade elettriche accende la barbetta rossa»), o la dama con la cuffia della Croce rossa che al mercato delle pulci cerca di vendere un paio di mutande di merletto – un’immagine che tornerà varie volte negli scritti di Malaparte.

Adesione alla tirannide

È chiaro che leggendolo oggi questo libro dà anche un senso di tristezza se non d’irritazione. Per quello che non c’è e non ci poteva essere, neanche se Malaparte avesse avuto un’indole diversa. Tuttavia, anche se il 1929 erano ancora tempi «vegetariani» come avrebbe detto Anna Achmatova, leggere della «fredda, paziente e inesorabile tenacia di Stalin» fa un po’ rizzare i capelli, così come sentir dire che gli scrittori russi, nel ’29, erano tutti animati da una grande «spregiudicatezza autocritica» suona come un involontario sarcasmo nei loro confronti. Ma il bersaglio ovviamente era diverso. Per uno strano paradosso del tutto comune nella storia dei rapporti fra scrittori e potere, Malaparte affermava la propria libertà intellettuale esprimendo adesione a una tirannide, ossia negando che la libertà fosse un’esigenza generale. La sua parte in commedia per l’appunto era questa: mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo, e attaccare frontalmente l’ipocrisia borghese, il perbenismo politico e morale dei conservatori. E vedere fino a che punto Mussolini avrebbe tollerato questa impostazione.

Il limite viene subito scavalcato dal libro successivo, Technique du coup d’État, che esce in Francia nel 1931 e non potrà essere stampato in Italia fino al ’48. È il libro che dà «la gloria» allo scrittore e che insieme gli procura una serie di grattacapi (carcere, confino, soggiorni obbligati) che dureranno in sostanza fino alla Liberazione. La tesi è semplice e bruciante: la storia degli anni venti non è quella degli Stati né dell’applicazione del trattato di Versailles, ma la storia del conflitto fra catilinari e conservatori. I primi vogliono la rivoluzione e la trasformazione della società, e sono pronti a usare la violenza, i secondi difendono l’ordine e la legalità parlamentare. Malaparte di nuovo non esprime preferenze verso i catilinari di destra o di sinistra, ma è evidente che qui, nel comune legame con la violenza e l’illegalità, il paragone si è spinto troppo oltre.
Il racconto della Rivoluzione d’ottobre del 1917 occupa alcuni capitoli del libro ed è una cronaca straordinariamente appassionante di quei giorni. Condotta per tagli violenti e rapidi movimenti di macchina dall’interno all’esterno, dalle riunioni clandestine ai palazzi del governo, e da questi ai caffè e alle enormi piazze e prospettive di Pietrogrado dove il disordine è «spaventoso». La lunga sequenza descrittiva della città in attesa dell’insurrezione deve ovviamente molto alla letteratura classica russa, a Gogol’ e Dostoevskij soprattutto, ma nell’esecuzione fa pensare al montaggio di Ottobre di Eizenštein, coi primi piani dei cosacchi, le inquadrature sulla folla e la nebbia rossastra che «grava sulle ciminiere del sobborgo di Wyborg, dove si nasconde Lenin, pallido e febbricitante sotto la sua parrucca, che gli dà un’aria di piccolo commerciante di provincia». Lenin e Trockj sono i tecnici geniali della conquista dello stato, gli spietati ingegneri della macchina rivoluzionaria, in un livido clima di cospirazione che sembra uscito dai Demoni di Dostoevskij.

Giulio Cesare alla tirolese

Il materiale diretto, visivo e bibliografico, per questo pamphlet è quello raccolto nel soggiorno in Russia di due anni prima; e ancora Malaparte se ne servirà per il volume che completa il terzetto sovietico, Le bonhomme Lénine, del 1932, a sua volta uscito in Francia e subito vietato in Italia e in Germania. Le sue opinioni sulla Russia diventano a mano a mano meno innocue con l’ascesa al potere di Hitler («un Giulio Cesare in costume tirolese», l’aveva definito) e l’addensarsi delle nubi che portano alla guerra. E quando questa scoppia trascinando con sé la sciagurata Italia di Mussolini, Malaparte è inviato per il Corriere della Sera presso il fronte russo, in Finlandia e in Ucraina, il centro delle più straordinarie violenze e efferatezze di tutto il Novecento. Lo scrittore è già arrivato alla fine della sua lunga marcia dentro (e contro) il fascismo. Scrive articoli in cui loda il coraggio e l’efficienza dell’Armata rossa, come faceva negli stessi mesi, ma nel campo opposto, l’ebreo russo Vassilij Grossman, corrispondente di guerra per Krasnaja Zvezda (La stella rossa), e dice che gli ufficiali nazisti ne erano sbalorditi. Le sue corrispondenze vengono sospese: usciranno raccolte in volume nel 1943 col titolo eloquente Il Volga nasce in Europa.

Malaparte è famoso soprattutto per Kaputt (1944) e per La Pelle (1949), i due romanzi che nascono dal clima della guerra, nello sfascio generale e nella sconfessione delle ideologie europee. Si è detto che nessuno ha sentito più di lui la decadenza dell’Europa, ha registrato il ribrezzo fisiologico emanato dal suo corpo in decomposizione. Questo vale per i romanzi maggiori ma anche per un romanzo incompiuto ambientato in Russia nel 1929, Il ballo al Cremlino, rimasto semi inedito e di recente riproposto in una veste filologicamente attendibile da Adelphi (a cura di Raffaella Rodondi, 2012), con l’onesto sottotitolo di Materiale per un romanzo. Si apprende appunto da questa edizione che l’idea scaturisce dallo stesso cantiere de La pelle e si separa in seguito fino ad assumere forma indipendente, e che contende a lungo alla sua opera madre l’attenzione dell’autore.

La formula narrativa è quella sperimentata del «romanzo storico contemporaneo», ovvero misto di storia e di invenzione, come i romanzi storici tradizionali, ma girato in diretta da un cronista chiamato «Malaparte», un ibrido inseparabile fra l’autore empirico e il personaggio romanzesco. La tesi di questo narratore è come prima che «la Russia si rispecchia nell’Europa» e viceversa, ma stavolta sotto il segno della comune corruzione, e soprattutto del pericolo ormai venuto in piena luce (1946-’48) che lo Stato sovietico rappresenta per la libertà. Al piglio dell’osservatore impassibile e spregiudicato è subentrato uno sguardo altrettanto indifferente ai destini dei singoli personaggi, all’orizzonte morale delle loro azioni, e puntato piuttosto sulla fatalità che li coinvolge tutti come classe in dissoluzione. Come Proust ha rappresentato in un’ottica di «disinteresse» la fine dell’alta società europea di prima del 1914, così Il ballo al Cremlino vuole essere il ritratto della «nobiltà marxista», cioè del «bel mondo» del 1929 in procinto di essere liquidato da Stalin.

Un enorme animale morente

Istruttivo ritratto: perché nell’alta società si legge per sineddoche il carattere di un popolo, e se questa è corrotta è corrotto anche il popolo che la mantiene. E se dovesse succedere che «l’attuale nobiltà marxista» dominasse in Europa, non c’è dubbio che l’autore con tutti i suoi lettori «finirebbero al muro». Non in quanto criminali o nemici dello stato, ma soltanto in quanto uomini liberi. Questa tesi però conta fino a un certo punto, e ha ragione Raffaella Rodondi a sostenere che la ricchezza dei motivi del libro non può essere ridotta all’anticomunismo «contingente» di Malaparte. La suggestione in queste pagine è affidata al lievito letterario e a quel senso di nausea che si diffonde uniforme su tutti i dettagli, con un effetto di allucinazione iperrealistica. Questa aristocrazia di parvenus è una versione grottesca, travestita delle aristocrazie tradizionali. La moglie di Lunaciarskij, attrice di teatro, indossa per le occasioni eleganti abiti di scena disegnati da Schiaparelli. Il Capo del protocollo Florinskij è il più famoso omosessuale di Mosca e gira per la città in un improbabile Landau con la vernice scrostata, «incipriato e imbellettato» come un cicisbeo. Si tratta di una specie di funebre melò, di opprimente mascherata che va in scena al riparo dagli occhi indiscreti, dato che a differenza delle sue consorelle la nobiltà marxista non ama (e non può) mostrarsi in pubblico. E mentre le beauties del Cremlino commentano l’ultimo pettegolezzo sul tenebroso Karakan, l’eroe della rivoluzione in Cina, innamorato marcio della ballerina Semionova, qualcuno annuncia sottovoce che Kamen’ev è stato arrestato e forse si trova già in esilio. Per le strade di Mosca gli altoparlanti appesi ai pali dei lampioni trasmettono assurdi poemi anticristiani, ovunque si vedono striscioni inneggianti al primo anno del primo piano quinquennale. Ogni oggetto o persona su cui si posa l’occhio sembra sul punto di marcire o sgretolarsi in polvere come le cupole abbattute delle chiese ortodosse.

Nel pieno del suo slancio verso la modernizzazione la Russia appare a Malaparte nell’aspetto di un enorme animale morente. «Dalla città saliva un soffio profondo, come di mucca malata». Allegoria di un mondo disumano e, con la formula dell’epoca, inautentico.

Era autentica invece l’attrazione di Malaparte per la Russia, che la visita un’ultima volta nel fatidico 1956, l’anno che inizia col rapporto di Chrušcëv sugli «errori» di Stalin e finisce con la brutale repressione della rivolta ungherese. Il «disgelo» aveva riacceso le speranze nel colosso sovietico dello scrittore di Prato, che nel frattempo aveva maturato l’ennesima infatuazione politica per la Cina di Mao Tse-Tung. Sarebbe stato senza dubbio un ulteriore capitolo nel suo lungo corpo a corpo con le ideologie del Novecento, se il tumore ai polmoni che lo uccide l’anno dopo non l’avesse interrotto. Restano alcuni pezzi non troppo felici sulla vita a Mosca e una manciata di splendide descrizioni della steppa e dei cieli della Siberia, inviati alla rivista comunista «Vie nuove» e al «Tempo» settimanale. Usciranno anche questi l’anno dopo in un volume postumo intitolato Io, in Russia e in Cina.