Dei tre grandi ritratti di amici intellettuali, dipinti da Wyndham Lewis negli anni trenta, quello di T.S. Eliot non ha l’audacia formale e i profili interrotti e puntuti di quello di Edith Sitwell (opera di lunga gestazione, iniziata negli anni venti e completata soltanto nel 1935), né la spontaneità dell’Ezra Pound raffigurato seduto, con la testa rovesciata all’indietro e gli occhi chiusi, eseguito nel 1939 dal vivo, dopo che il poeta, arrivato nello studio di Lewis, si era abbattuto esausto sulla poltrona di fronte al cavalletto. Mentre dipingeva il quadro Lewis parlò a Pound del ritratto di Eliot, eseguito pochi mesi prima, e Pound gli rispose che il suo sarebbe venuto meglio, perché aveva davanti a sé «un soggetto migliore su cui lavorare».
Era stato proprio Pound, nei primi mesi del ’15, a presentare Eliot a Lewis, e quest’ultimo, sul secondo numero di «Blast», la rivista vorticista da lui diretta, aveva pubblicato alcuni testi giovanili del poeta (Preludes e Rhapsody for a Windy Night), i primi ad apparire in Inghilterra dopo l’arrivo di Eliot dagli Stati Uniti. Tra i due nacque un rapporto di profonda stima e amicizia, protrattosi sino alla morte di Lewis, nel 1957. Negli anni dieci Lewis rappresentava, come pittore, scrittore e intellettuale, la punta più avanzata dell’avanguardia inglese. Attorno a lui (e a Pound) si erano riuniti gli artisti che volevano riallacciarsi alle esperienze più attuali nell’arte europea, specialmente al futurismo, e superare quindi il «postimpressionismo» proposto da Roger Fry con le due mostre tenutesi nel 1910 e nel 1912 alle Grafton Galleries di Londra. Dei futuristi i vorticisti inglesi imitavano le pose, l’attivismo, il gusto per la provocazione; avvertivano un’analoga necessità di rottura con il passato, mentre Fry vedeva invece nell’arte moderna, da Cézanne a Matisse, la via per recuperare la tradizione smarrita per strada da un impressionismo intento, secondo lui, a trascrivere soltanto l’istantaneità dell’esperienza visiva.
E pensare che le tecniche canoniche erano nel sangue di Lewis, allievo di Henry Tonks alla Slade School, la maggior scuola inglese di disegno, dove avevano studiato quasi tutti gli artisti moderni britannici della sua generazione, imparando i rudimenti di un linguaggio che Lewis manovrava in modo superbo: egli stesso e Augustus John erano di gran lunga i più dotati allievi della Slade di quegli anni. Con John e un’altra quindicina di artisti Lewis aveva fondato il Camden Town Group, primo tentativo, di breve durata, di dare coerenza a un modernismo inglese appena in ritardo su quello di Bloomsbury, nato sotto l’egida del maggiore fra i pittori inglesi della generazione precedente, Walter Richard Sickert.
Proprio Sickert (ricorda Eric Westbrook) considerava Lewis come «il maggior ritrattista del nostro tempo» e il quadro raffigurante Eliot mostra appieno le sue qualità pittoriche e disegnative. Sorprende quindi che nel 1938, quando l’opera fu proposta per la mostra estiva della Royal Academy, essa fosse stata rifiutata con clamore: Augustus John si dimise dall’Accademia in segno di solidarietà con il vecchio amico, mentre Winston Churchill, che da pittore dilettante aveva le sue idee sull’arte, sostenne le ragioni dell’Accademia. Lewis si trovò così, per l’ennesima volta in vita sua, a sostenere la parte del «nemico».
Com’era nel suo stile, l’artista non le mandò a dire agli avversari, sostenendo stavolta, al di là dei toni accesi, posizioni non rivoluzionarie, perché accusò la Royal Academy (le cui mostre considerava un «incubo di fatua volgarità») di richiedere agli artisti una qualità «fotografica», e perciò meccanica, priva della profondità culturale propria della vera tradizione (la presenza di un grande fallo nella porzione sinistra dello sfondo non dovette incoraggiare i paludati accademici di Sua Maestà ad accogliere il quadro).
Nel giro di pochi mesi il ritratto prese la via di Durban, in Sudafrica, dove da allora risiede, nella locale Art Gallery. Non è l’unica immagine di Eliot lasciataci da Lewis: un primo disegno del volto del poeta fu realizzato negli anni trenta, seguito da uno studio a olio e un disegno per il ritratto di Durban. Resta poi un secondo ritratto, del 1949 (Magdalene College, Cambridge), dipinto quando Lewis era quasi cieco, non molto interessante.
Il ritratto di Durban presenta Eliot seduto con le mani una sull’altra, appoggiate sul ventre; il viso si scontorna su uno sfondo bianco, ai lati del quale si aprono due spazi figurati, con immagini astratte e non (si riconoscono almeno un grande pene e due anatre). Il poeta non ci guarda in faccia, ma punta gli occhi di lato, fuori dal quadro. Gli resta poco del fascino un po’ enigmatico con cui era apparso a Lewis un quarto di secolo prima, «elegante, alto, attraente, con un sorriso simile a quello della Gioconda». Nel ritratto di Durban non c’è nulla della spontaneità di questa descrizione: il quadro mostra piuttosto, come in molti hanno detto, la maschera di un intellettuale che, rispetto a Pound e Lewis, era stato assai meno ribelle. L’impressione di artificialità del quadro è accentuata dalla condotta pittorica; a quelle date Lewis aveva quasi abbandonato l’astrazione e voleva invece «inglobare Euclide nella carne viva», passando le forme al vaglio rigoroso della geometria.
La critica ha rilevato inoltre che l’ombra portata della testa di Eliot sulla porzione bianca dello sfondo richiama il profilo di Apollinaire (1914) nel ritratto «profetico» di Giorgio de Chirico; l’ombra è tuttavia dotata di un carattere fallico che può connettersi a quella del ritratto di Ezra Pound scolpito da Henri Gaudier-Brzeska nello stesso 1914. Le immagini riconoscibili nelle due parti laterali dello sfondo possono fornire qualche elemento in più per capire alcuni riferimenti nascosti da Lewis nel dipinto. Il fallo presente sullo sfondo a sinistra potrebbe riferirsi ai versi scatologici e pornografici (e anche misogini e razzisti) del giovane Eliot, noti a Lewis perché, assieme ai testi lirici apparsi sul secondo numero di «Blast», il poeta gliene aveva inviati anche alcuni osceni, più per gioco, a quanto sembra, che per vederli davvero pubblicati. «Un paio di grandi palle pelose/ e un gran pene nero e nodoso», si legge in uno dei testi e, peli a parte, il resto nel quadro c’è tutto. Quanto alle anatre – la femmina a sinistra e il più variopinto maschio a destra –, esse potrebbero riferirsi a un testo di Eliot edito nel 1933, Lines to a Duck in the Park (Versi per un’anitra nel parco), dove appaiono «l’anitra e il suo maschio» (traduce Roberto Sanesi) a cui il poeta, dopo aver fatto la comunione, dà da mangiare il pane (e le sue dita), «preda più facile del verme», memento quest’ultimo della morte in agguato.
La bipartizione dello sfondo, se si concorda con la linea di lettura qui proposta, sembra quindi allegorica e fa pensare a un’altra poesia eliotiana ben nota a Lewis, che l’aveva pubblicata nella primavera del ’21 sul numero inaugurale di «The Tyro», sotto lo pseudonimo di Gus Krutzsch. Nella complessa architettura de La Terra Desolata, il testo era uno dei componimenti, poi eliminati, previsti a mo’ d’intervallo fra le cinque parti: Song to the Opherion (nel titolo finale divenuto Opherian) compare ancora nel manoscritto del poema corretto da Ezra Pound ed evoca un sogno dove appare l’immagine di un pendolo che «oscilla fra la vita e la morte».
Gli elementi astratti presenti a destra e a sinistra dello sfondo, inoltre, sono dotati della stessa iconografia biomorfica e creazionale che compare in un gruppo di acquerelli eseguiti da Lewis all’alba degli anni quaranta, come Creation Myth (1941-’42) o The Sage Meditating upon the Life of Flesh and Blood (1941). Forme attorte come riccioli, simili alle «fancies» del quarto dei Preludes del giovane Eliot, autore che Lewis rivendicava di aver capito (e pubblicato) per tempo; quando sulle labbra del poeta si disegnava ancora il sorriso enigmatico della Gioconda.