È in libreria, edito da Giunti, La preistoria è donna (pp. 300, euro 20) della storica francese Marylène Patou-Mathis, direttrice di ricerca presso il Cnrs e specialista nel comportamento dei Neanderthal. Come evidenzia l’eloquente sottotitolo – Una storia dell’invisibilità delle donne – il saggio chiarisce quel che sciaguratamente appare ancora necessario chiarire: le donne preistoriche non trascorrevano le giornate spazzando le grotte; la metà maschile della popolazione non può vantare alcuna esclusività nel contributo offerto all’evoluzione tecnica e culturale dell’umanità originaria. Ne discutiamo con l’autrice.

C’è una motivazione particolare che l’ha indotta a scrivere questo libro proprio in questo momento storico?
Per combattere luoghi comuni sulla preistoria che persistono nei testi scolastici, figuriamoci in un immaginario collettivo alimentato dalle superficiali ricostruzioni del modo di vivere dei nostri antenati divulgata dalle illustrazioni, dai film e dalla letteratura. La società occidentale è fortemente impregnata di patriarcato e la gender archaeology, diffusa nei paesi anglosassoni, è stata a malapena recepita dai colleghi europei.
Nel corso della mia carriera sono inciampata in pregiudizi metodologici viziati da presupposti sessisti. Dalla metà dell’Ottocento agli anni Ottanta del secolo scorso mai nessuno si è preso la briga di mettere in discussione un assioma: gli artefici delle innovazioni capaci di segnare il progresso sono maschi. Il controllo del fuoco, la grande caccia, l’arte rupestre? Merito loro. E basta.

Come è nato il postulato dell’inferiorità delle donne in quei contesti?
È stato a fatica costruito nei secoli, prima teorizzando una divisione dei compiti sulla base del genere, presumendo la diversa capacità dei sessi di svolgere una determinata attività, quindi gerarchizzando i compiti stessi, infine dando per scontati i risultati di tale elaborazione. La caccia, ritenuta tipicamente maschile, è stata considerata più nobile della raccolta, ovviamente femminile. L’educazione dei bambini e le mansioni domestiche richiedendo competenze sottovalutate, non potevano che interessare le sole donne. Seguendo questa falsariga gli uomini finirono progressivamente per confinarle nella sfera familiare, riservandosi la facoltà di gestire ogni affare connesso alla vita sociale, politica e culturale. In principio fu la religione a scolpire nella pietra il dogma della subordinazione delle donne, in seguito ci pensarono i medici, da Ippocrate a Cabanis, a decretare un’inferiorità femminile «per natura».

La scienza può forse aiutarci a ritrovare una giusta prospettiva?
La bio-geochimica permette, grazie all’analisi degli elementi contenuti nel collagene conservato nelle ossa, di conoscere la dieta di un individuo del Paleolitico. Non sono state riscontrate differenze nelle abitudini nutrizionali tra uomini e donne, per cui potremmo dedurne che i loro status sociali si equivalessero.
A conclusioni simili ci porta lo studio dei traumi presenti sulle ossa, indizio della ripetizione continuativa di una specifica azione dovuta alle occupazioni lavorative. Il Dna, inoltre, ha smascherato le attribuzioni di numerosi fossili che, nel dubbio, erano giudicati maschili. Il cosiddetto Uomo di Mentone, rinvenuto nel 1872 in una delle grotte dei Balzi Rossi, presso Ventimiglia, è stato giustamente ribattezzato la Donna del Caviglione.

Con nitidezza sempre maggiore si palesa l’incapacità dell’archeologia, qualora volesse, di mettere in relazione la professione con il genere.

Lo ribadisce la recente scoperta della tomba di una cacciatrice vissuta novemila anni fa sulle Ande peruviane. Nel continente americano – si è poi capito – le donne avrebbero costituito dal 30 al 50% del totale dei cacciatori. Ciò dimostra come la nozione di genere, binaria nel mondo occidentale contemporaneo, non fosse identica in quell’epoca e in quel luogo, per i quali possiamo benissimo immaginare una distribuzione degli incarichi in base all’abilità e all’esperienza. Magari cacciava e dipingeva semplicemente chi ne era capace. L’arte paleolitica raffigura principalmente animali. Quando troviamo figure umane, quasi al 90% sono femminili, a partire dalle famose Veneri. Senonché l’interpretazione delle statuette è stata appannaggio di studiosi uomini, i quali evidentemente hanno preferito far risalire a se stessi la loro creazione. Prove? Nessuna. Anzi, se esaminiamo le molteplici rappresentazioni di donne incinte e l’alta mortalità durante i parti, ci viene naturale ipotizzare che almeno una parte delle statuette sia stata scolpita da donne per altre donne, per esempio con la funzione di amuleti protettivi. E ormai è certo che molte delle impronte di mani in negativo sulle pareti delle grotte sono state apposte da donne. Forse i dipinti vicini sono stati realizzati da loro.

Sembra ovvio. Anche tra gli aborigeni d’Australia, se cercassimo confronti, incontreremmo un buon numero di riproduzioni pittoriche realizzate da artiste.
Ecco, l’etnoarcheologia. Di nuovo studiosi maschi: avendo notato un ruolo di genere nelle società occidentali prese in esame, dove sono gli uomini a cacciare, hanno dedotto per la preistoria una situazione analoga. Senza nemmeno tenere a mente che si può cambiare: se l’economia dei cacciatori-raccoglitori si è perpetuata, ciò non vale necessariamente anche per le strutture sociali, il modo di pensare, la cosmogonia e la percezione di genere.
Conosciamo il Paleolitico soprattutto da scavi effettuati in Europa e nel Vicino oriente. Il resto del mondo ha però ancora tanto da insegnare. In Africa il sistema matrilineare è stato per lungo tempo più frequente di quello patriarcale; lo stesso potrebbe essere accaduto in alcune società preistoriche.

Una rilettura della preistoria può favorire la costruzione di un futuro prossimo migliore?
Deve. A volte, nostro malgrado, abbiamo sentito l’urgenza di gerarchizzare popoli, sessi, culture, epoche. Tuttavia, se siamo qui è perché sia le donne sia gli uomini preistorici hanno saputo adattarsi al loro ambiente e risolvere i loro problemi. Sarebbe sufficiente cambiare i criteri con cui osserviamo il passato per accettare che patriarcato e violenza potrebbero non aver sempre convissuto con l’umanità. La speranza nasce da una constatazione: la storia non è fissa e nulla è immutabile. Il patriarcato è solo un fenomeno contingente: deve e può essere sostituito da una visione egualitaria.