Può sembrare ovvio, ma il Surrealismo è qualcosa di più complesso di un movimento artistico e letterario. Se ne accorse per primo Benjamin durante il suo soggiorno parigino. Nel suo articolo Der Surrealismus (1929) spiegò quanto questo fosse stato per lui una «pratica dell’illuminazione profana», condividendo con i surrealisti, che nutrivano la totale «sfiducia nella sorte dell’umanità», l’impegno che si doveva correggere all’«istante» il modo di pensare. Il filosofo tedesco confidava molto in quella «forza rivoluzionaria», l’unica capace di «organizzare il pessimismo» e avviare un «processo di liberazione».
Dall’alleanza tra arte e politica sarebbero scaturiti nuovi modi di immaginare la vita influenzando ciò che le ruotava intorno: in modo speciale il mondo degli oggetti, presi nei loro significati onirici o reali, simbolici o meditativi, ironici o perturbanti. Quelli surrealisti ispirarono poeti e artisti in ogni parte del mondo, e ancora affascinano chi continua a scorgere in loro i segni di una speciale «filosofia della vita», quella che, come ha detto Arturo Schwarz, consiste nell’«ambizione smisurata di cambiare il mondo» iniziando da se stessi.
Al Vitra Design Museum la mostra Objects of Desire Surrealism and Design 1924 – Today (fino al 19 gennaio) approfondisce la relazione fra Surrealismo e design attraverso un percorso diviso in quattro sezioni. Con lo scopo di associare al «surreale» un elenco di oggetti, arredi, architetture del secolo scorso, oltre ad alcuni progetti a noi più recenti, affronta in modo forse un po’ troppo deterministico ciò che non è etichettabile per semplicità, disegno e serialità industriale, ma che al contrario è orientato verso sagome biomorfe, arrotondate e morbide, in apparenza dalla funzionalità perfetta. Si va dagli storici esempi della sedia di Gaudì per Casa Calvet al tavolo Arabesco di Carlo Mollino a quello per gli scacchi di Isamu Noguchi, fino alla sedia Correalist Rocker di Frederick Kiesler. La loro presenza, nella prima sala del museo, contrasta con il ferro da stiro-chiodato di Man Ray (Regalo, 1921), che insieme ai ready-made di Duchamp (Scolabottiglie, 1914; Fontana/Urinatoio, 1917) rappresenta l’opera d’arte surrealista per antonomasia.
L’audace contatto introduce così la prima antinomia tra l’estetica dell’oggetto del Surrealismo e il prodotto di design. Gli oggetti per Breton, infatti, erano classificati: «utensili» o «opere d’arte», e se si parla dei primi questi dovevano essere defunzionalizzati. Come ha scritto Claude Abastado (Introduction au surréalisme, 1986), occorreva «braccare la bestia dell’uso» esplorando i significati latenti che un oggetto nascondeva, sostituendone la funzione e rendendolo «umoristico» o comunque capace di «disorientare» e «disarticolare l’equilibrio del mondo». Infatti, solo se l’oggetto è «libero o folle» si concretizza l’azione libertaria surrealista.
Nella natura utilitaristica del design tutto ciò è negato, e ne ha certezza Krzyztof Fijalkowski quando, in catalogo, si domanda come «possono conciliarsi le esigenze razionali del design con la posizione intransigente del Surrealismo contro le tirannie degli stati, le istituzioni e le ideologie dominanti?». Tuttavia si è voluto tentare il confronto distinguendo tra una «influenza secondaria» dei surrealisti e i «rari ma rilevatori» loro interventi all’interno del design. Sbrogliare la matassa dei «fili interconnessi» nelle storie dell’uno e dell’altro non è stato semplice, e il risultato è a volte un evidente smarrimento volendo a tutti i costi stabilire relazioni di fatto inesistenti. È il caso di Mollino, al quale si dedica addirittura una piccola sala che documenta le sue domestiche scenografie torinesi: Casa Miller, 1936; Casa Devalle, 1940. Seppure lettore di «Minotaure», Mollino non aveva «bisogno di scomodare Freud», tanto meno cercare l’«abbandono” all’inconscio surrealista», come lui stesso scrisse, per sostenere le buone ragioni della «decorazione propriamente detta»: la sua – eclettica, simbolista, ermetica – «filosofia del decadentismo» in forma di arredo, per usare il titolo di un famoso saggio di Norberto Bobbio.
L’opposto di Elsa Schiaparelli, stilista colta che mise a profitto (introdotta da Gabrielle Picabia, moglie di Francis) le sue relazioni internazionali nella comunità degli artisti surrealisti presenti a Londra, Parigi e negli Stati Uniti, sperimentando nella moda l’écriture automatique e la poetica dell’objet trouvé. La sua sartoria inventò abiti sorprendenti e improbabili, «come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio» (Conde de Lautréamont). La sua convinta adesione all’estetica surrealista avrebbe meritato un diverso trattamento, almeno per il suo singolare legame con Meret Oppenheim e Dalì.
Tuttavia questa disparità di valutazione risiede nella stessa ragione che giustifica la generosa accoglienza, riservata dal curatore Mateo Kries, a opere che incrociano il Surrealismo – il terrazzo di Casa de Beistegui di Le Corbusier (Parigi, 1936) – o a personalità che ne sono del tutto estranee (Alvar Aalto, Charles Eames). Il motivo è che tutto è funzionale alla tesi secondo cui esiste nel design un mondo che va «al di là dell’utilità», pertanto ogni cosa è concessa. Se l’arte possiede «l’aura dell’unico e dell’inutile», naturale, come rammentò Deyan Sudijc, che Alfred Barr nel 1929 aprisse le sale del MoMA al design per celebrare l’oggetto destinato alla produzione di massa come se fosse anch’esso arte.
Da allora il meccanismo perfezionato negli anni del postmoderno è quello di congiungere arte e design. Ecco quindi l’espediente della citazione e del riuso per rivitalizzare l’eversiva storia del Surrealismo, ormai depurata di ogni intenzionalità rivoluzionaria. Qualcosa di molto diverso da ciò cui aspirava Breton, nel 1942, quando davanti agli studenti dell’Univerrsità di Yale chiedeva «la nascita di un movimento più emancipatore» di quello da lui fondato.
Prevedibile, quindi, imbattersi negli artisti-designer contemporanei come Nanda Vigo, che richiama Meret Oppenheim; Aube Elléouë Breton, che copia la mano dentro la conchiglia di Dora Maar; Gaetano Pesce, che propone la sedia La Mamma di Dalì; Studio65, con il divano Mae West Lips sempre dell’artista catalano, e poi diverse restituzioni in tridimensionale sotto forma di sedute (Robert Stadler, Danny Lane, Eric Klarenbeek), cassettiere (Shiro Kuramata), scope (Alicja Kwade), caraffe (Audrey Large) degli oggetti ed elementi in liquefazione sparsi nei paesaggi di Yves Tanguy, Kurt Seligmann o Max Ernst.
Tutta questa presa di possesso di invenzioni e temi propri del glossario surrealista – dall’archetipo all’inconscio, dall’erotismo al «pensiero selvaggio» di altre culture. primitive o lontane – hanno alimentato e sostengono una produzione quasi sconfinata di oggetti, tra artistici e non, che confermano quanto il «desiderio» surrealista di «conoscere il mondo» per trasformarlo si sia arreso all’evidente loro «supremazia».
La riflessione di Baudrillard echeggia sullo sfondo della mostra, anche se estranea ai suoi autori. Sulle rive del Reno non c’è più «il soggetto che desidera», quello che ancora ritroviamo nei testi di Breton, Artaud, Péret, ma, come ha denunciato il filosofo francese, c’è solo «l’oggetto che seduce». In particolare quello puro dell’arte, ridotto a sola «fascinazione», «feticcio trionfante», che risplende «nell’oscenità pura della merce», prefigurata da Baudelaire e compresa da Marx: due che come i surrealisti amavano il fantasmagorico.